giovedì 23 febbraio 2017

ROSSO FIORENTINO a Fontainebleau

ROSSO FIORENTINO a Fontainebleau di Goffredo Ademollo Valle

Francesco I, Re di Francia, reduce dalla prigionia spagnola che lo aveva visto umiliato di fronte all’intera Europa, ritorna in patria, nel 1526, con il desiderio e l’ambizione di regnare da gran sovrano. Mai come allora Francesco I sentì il bisogno di seguire e interpretare lo spirito rinascimentale che aveva ormai conquistato tutte le corti europee e che consisteva, soprattutto in campo artistico, nel dare impulso al rifiorire delle attività propriamente umane: poetiche, letterarie, artistiche, religiose e morali. Gli influssi della cultura italiana in Francia erano vivi da secoli, dal Medioevo al Quattrocento. Francesco I, consapevole dell’educazione umanistica che in quel tempo ogni buon sovrano doveva necessariamente possedere, si dimostrò più che mai sensibile al fascino della penisola italiana e delle sue corti, da lui guardate come modelli di vita. I suoi soggiorni, durante le campagne di guerra, in Italia, avevano rafforzato in lui l’amore per l’arte e il desiderio di circondarsi dei più alti e illustri ingegni che il Rinascimento stava producendo. Già in precedenza, nel 1516, era riuscito ad avere presso di sé, nel castello di Cloux, Leonardo da Vinci il quale gli sarebbe poi, tre anni dopo, spirato tra le braccia.  Francesco I si propose di realizzare a Fontainebleau, luogo situato nelle vicinanze di Parigi e da lui amato per via della foresta (dove diceva di potersi dedicare “ al piacere della caccia delle bestie nere e rosse”), una corte regale, esclusiva, raffinatissima, elegante ed emancipata sul modello di quelle già conosciute in Italia (per esempio la corte isabelliana del Ducato di Mantova, dove Giulio Romano sovrintendeva, fin dal 1524, sotto gli occhi del committente Federico II Gonzaga, ai lavori de “la fabbrica del Te”). L’idea di Fontainebleau, come corte “gioiello”, probabilmente nasce lentamente; si evolve e si matura nel tempo. Fin dall’inizio dei lavori, infatti, mancò la figura di un vero e proprio architetto, ideatore, sovrintendente e coordinatore in assoluto dell’intera “fabbrica”. Si lavorò sul preesistente piuttosto che sul nuovo. Questo spiega la mancanza di unitarietà dell’architettura e di armonie stilistiche nelle facciate degli edifici.
Nel 1528 si dette inizio alle opere di ristrutturazione degli edifici medievali esistenti, aggiungendo nuove costruzioni, conformi a criteri architettonici e decorativi dettati dal Rinascimento italiano, dove prevalsero soprattutto idee di funzionalità e distribuzione razionale degli spazi.
Francesco I, monarca intelligente, amante delle lettere e delle arti, mecenate e protettore degli ingegni, aspirò a realizzare in Fontainebleau, avvalendosi dei maestri delle grandi scuole italiane, più e meglio di quanto fosse stato già fatto a Roma con Michelangelo e Raffaello, a Mantova con Giulio Romano, a Firenze con i numerosi altri artisti. Per attuare il suo ambizioso progetto, il sovrano si circondò, quindi, di una corte di gentiluomini, di dame, di prelati, di letterati e soprattutto d’artisti.
Il primo artista italiano che giunse a Fontainebleau, chiamato a decorare le nude pareti del rinnovato castello, è Giovanbattista di Jacopo detto “Rosso Fiorentino”.
Secondo il racconto vasariano, il Giovedì Santo dell’anno 1530, Rosso Fiorentino si trovava a Sansepolcro, in Toscana. Una rissa, scoppiata in chiesa, per futili motivi, gli avrebbe fornito l’occasione per lasciare definitivamente l’Italia. Da Sansepolcro, per la via di Pesaro, il Rosso giunse a Venezia, dove fu ospite di Pietro Aretino. Si pensa che i due si fossero già conosciuti a Roma, forse nel 1524 o 1525. Il toscano Pietro, scrittore, poeta, dittatore del gusto, amico di pittori, consigliere di sovrani, era famoso per il suo fiuto finissimo nelle cose dell’arte e della politica. Era molto attento e vigile su quanto stava accadendo, non solo nelle corti europee; ebbe relazioni epistolari con il Sultano d’Oriente, Solimano I il Magnifico, e anche con il suo Ammiraglio, Ariodeno detto il Barbarossa.
 A Venezia, Rosso Fiorentino eseguì, forse proprio su richiesta dell’Aretino, il noto disegno raffigurante Venere e Marte. Così dal Vasari: “Gli disegnò in una carta, che fu poi stampata, un Marte che dorme con Venere e gli Amori e le Grazie che lo spogliano e gli traggono la corazza.”
Il soggetto sembra alludere al matrimonio fra il re di Francia ed Eleonora d’Austria.
Il medesimo fu ripreso poi dallo stesso Rosso Fiorentino per una pittura a olio, oggi purtroppo perduta, che si trovava alla fine della Galleria Francesco I, sul lato Ovest.
Il disegno, oggi al Louvre, fu inviato in dono, dall’Aretino al re di Francia, come biglietto da visita dell’artista toscano. Sarebbe stato perciò l’Aretino (la notizia è da considerarsi attendibile perché supportata da alcune notazioni su lettere) a raccomandare Rosso Fiorentino presso Francesco I. Fatto sta che nel mese di Novembre del 1530 il Rosso si trova a Parigi, al servizio del sovrano. Alcune lettere d’Antonio Mini, scritte a Michelangelo, nel Dicembre 1531 e nel Gennaio 1532, affermano il successo e i favori che l’artista stava ottenendo presso la corte francese. Fu anche nominato canonico di Notre Dame e della Sainte Chapelle. Nei primi mesi del 1532 Rosso Fiorentino aveva già cominciato a lavorare ai progetti della Galleria di Fontainebleau; ma solo al momento dell’attuazione delle opere progettate avverrà il suo trasferimento da Parigi al cantiere del castello. I pagamenti lo confermano in attività dal luglio 1533 fino al 1539. Nel 1536 è indicato come direttore di tutti i lavori. Il Rosso visse in terra di Francia da gran signore. Il Vasari tramanda che l’artista si trovò ad avere, poco avanti alla sua morte, “più di mille scudi d’entrata, senza le provvisioni dell’opere, che erano grossissime”; e aggiunge che egli visse, più da principe che da pittore, in una casa fornita di tappezzerie, d’argenti e masserizie di valore, avendo al proprio seguito numerosi servitori e cavalcature. Il re rimase senza dubbio affascinato dal talento artistico del pittore fiorentino, ma quello che forse contribuì, più di ogni altra cosa, a conquistarlo fu la seducente personalità del Rosso. Egli si fece apprezzare per il modo di atteggiarsi, per il suo parlare, per le profonde conoscenze in campo letterario, musicale e ovviamente artistico. Il Vasari, che senza dubbio lo conobbe bene e personalmente, lo definisce così:
“Dotato di bellissima presenza; il modo di parlare suo era molto grazioso e grave; era bonissimo musico; ed aveva ottimi termini di filosofia”.
Quando Rosso Fiorentino arrivò in Francia le strutture murarie della Galleria erano quasi completate, sotto la guida dell’Architetto Gilles Le Breton, anche se un ruolo di primo piano sembra averlo avuto un altro architetto, Piero da Padova, detto “l’italiano”. Il Rosso iniziò a lavorare in Fontainebleau alla decorazione della sala del padiglione, situata all’ultimo piano dell’edificio.
E’ ancora il Vasari a descriverla: ricchissima di ornamenti, stucchi, fregi, pitture, con figure a tutto tondo, putti, festoni e animali. Vi furono realizzati due grandi affreschi, alle pareti, raffiguranti gli amori di Vertumno e Pomona; la sala fu detta poi “ il padiglione di Pomona”.
Le opere andarono distrutte con l’abbattimento del padiglione, circa nel 1765-1766, sotto Luigi XV. Di uno degli affreschi rimane, al Louvre, un interessante disegno preparatorio del Rosso. Esaminandone i particolari si notano quattro profili umani, grotteschi, a forma di semiluna, disposti simmetricamente ai limiti del disegno. E’ evidente che si tratta dello studio di quattro stucchi. Li stessi soggetti sono da ritenersi un’invenzione “rossesca” e si ritrovano realizzati nella decorazione a stucco della Galleria Francesco I (per es. in corrispondenza del primo riquadro, parete sud, ai lati, in basso, dei Satiri maschio e femmina). Infatti, Rosso Fiorentino lavorò alla decorazione della sala da ballo e poi a quella, più complessa, della Galleria. Ambedue furono lasciate incompiute a causa della sua prematura morte, sopraggiunta nel 1540. Ma l’artista fiorentino, in Francia, si dedicò anche alla realizzazione di apparati ornamentali e opere che potremmo definire effimere o meglio “a perdere”: archi trionfali, colossi, mascherate, scenari. Disegnò abbigliamenti per cavalli e anche saliere, vasi e altri oggetti che probabilmente si realizzarono in argento. Alcuni saranno andati dispersi altri sono ancora da riconoscere. C’è da ricordare che, a parte la Pietà del Louvre, proveniente dal castello di Ecouen, poco o niente rimane di integro della pittura prodotta in Francia da Rosso Fiorentino (anche la piccola tavola raffigurante “Le défi des Pierides”, al Louvre, potrebbe essere lo studio, eseguito in Francia, per un grande quadro destinato a Francesco I; l’opera riprende però una composizione già inventata dal Rosso a Roma, e diffusa attraverso l’incisione del Caraglio). Attualmente, in Fontainebleau, nella Galleria Francesco I, sono ancora visibili alcune pitture che, seppure abbondantemente rimaneggiate e ritoccate, sono da considerare in stretto rapporto con le opere originali dell’artista.
Esemplare dello stile del Rosso è l’affresco de “la fontana della giovinezza”; vi si ravvisano figure di chiara invenzione “rossesca”: sulla destra, le due vecchie, dai profili arcigni, spigolosi, dai corpi scheletrici, un po’ diabolici che richiamano il San Girolamo della Pala di Ognissanti o la Sant’Anna (Santa Elisabetta) della Sacra Famiglia di Los Angeles, personaggi, come scrive il Vasari, dalle“arie crudeli e disperate”e “l’acconciature de’panni bizzarre e capricciose”. Sulla sinistra la figura di giovane donna, in una posa di abbandono, ricca di profonda sensualità, con il braccio rilasciato, rimanda al Cristo morto di Boston, alla deposizione di Sansepolcro e ancor più al quadro della morte di Cleopatra che si trova a Braunschweig, in Germania.
Nei lavori eseguiti a stucco è ben riconoscibile, come abbiamo già detto, la mano dell’artista (i putti abbracciati, sotto i medaglioni della parete minore, a Est; l’impianto architettonico e le figure, sul lato destro dell’affresco raffigurante “il sacrificio”; e ancora putti, festoni e mascheroni).
Il Rosso lavorò anche a due quadri a olio che dovevano essere collocati sulle pareti minori della Galleria, a Est e a Ovest (dove attualmente sono le porte). Quello della parete Ovest sarebbe stato il quadro (già citato a pag.3) di Venere e Marte, allegoria del matrimonio tra il Re e Eleonora d’Austria. Una tela che raffigura Bacco, Venere e Cupido, conservata nel Museo Nazionale d’Arte e Storia, in Lussemburgo, è stata recentemente riconosciuta da alcuni come copia (altri la ritengono opera autentica del Rosso) del dipinto, che in origine dovette essere ovale, previsto per la parete Est.
Per meglio ricostruire il ciclo pittorico originale della Galleria, assume fondamentale importanza la documentazione costituita dalle stampe. Si tratta di incisioni, eseguite intorno alla metà del XVI secolo, che destano grande interesse proprio per risalire alle opere da cui furono ricavate.
Adam von Bartsch, circa nel 1820, accorpò tutta la produzione acquafortistica sotto il nome di “ Anonymes de l’Ecole de Fontainebleau”. Questo nome, poi ridotto a “Scuola di Fontainebleau”, ebbe risonanza internazionale ed è, a tutt’oggi, identificativo dello stile e del periodo artistico riferibile al tempo di Rosso Fiorentino, Primaticcio (compresi gli altri artisti che poi elencheremo) e alla “Maniera” che essi introdussero in Francia. Gli acquafortisti che operarono nell’ambito della ”Scuola di Fontainebleau” sono otto, dei quali Antonio Fantuzzi, Jean Mignon, Leonard Limosin, Geoffroy Dumoutier e George Boba praticarono anche la pittura. La loro attività incisoria si rivolse soprattutto alla riproduzione dei disegni e dei lavori in pittura e stucco nel castello di Fontainebleau. Le acqueforti più significative, dove si riconosce chiaramente la riproduzione di soggetti e invenzioni di Rosso Fiorentino, sono per la maggior parte di Antonio Fantuzzi e di Geoffroy Dumoutier, seguono poi Leonard Limosin e il Maestro LD, da identificarsi in Leonard Davent. Ci sono anche delle incisioni eseguite dai bulinisti della “Scuola di Fontainebleau”, Domenico del Barbiere, Rene Boyvin e Pierre Milan. Solo l’ultimo riprodusse 20 stampe, tratte dal soggetto “gli amori degli Dei” del Rosso. L’acquaforte con la scena di “Ercole e Anteo” (attribuita al Fantuzzi), anche se non riguarda direttamente la Galleria Francesco I, conferma l’importanza che la conoscenza della produzione artistica di Rosso Fiorentino andava assumendo in Francia nel terzo e nel quarto decennio del Cinquecento. In essa vi sono chiare allusioni ai disegni del Rosso raffiguranti “Le fatiche e le avventure di Ercole”, conosciuti attraverso le incisioni di Gian Jacopo Caraglio (circa 1524). Ma ancor più evidenti sono i riferimenti  al suo quadro “Mosè che difende le figlie di Jetro” ( la tela, oggi a Firenze, agli Uffizi, fu inviata a Francesco I, intorno al 1530, da Battista della Palla. Nel 1632, in seguito al lascito di Don Antonio de’Medici, entrò a far parte delle collezioni medicee). L’incisore di “Ercole e Anteo”sembra avere ben osservato le opere del Rosso cogliendone gli aspetti più rilevanti. L’Ercole come il Mosè sono rappresentati in azione, nel pieno del combattimento, al centro della scena; campioni invincibili, in preda a un’inconsueta violenza. Sia nel dipinto che nell’incisione si accentua la sessualità dei protagonisti con gli attributi maschili raffigurati nel centro geometrico della composizione. Ercole, incarnazione della “fortitudo” e Mosè, “il profeta armato”; l’eroe greco e il profeta biblico sono entrambi esempi di Virtù e vengono considerati dalla dottrina e dall’allegoria religiosa anticipatori della venuta di Cristo. Il dipinto del “Mosè che difende le figlie di Jetro” resta comunque una delle opere più enigmatiche della storia dell’arte del Cinquecento.
La decorazione della Galleria Francesco I, a Fontainebleau, sebbene sia stata portata a termine dal Primaticcio, rimane il punto focale dell’attività del Rosso in Francia, anche se non sembra essere la migliore espressione di spontaneità del maestro fiorentino, giacché l’artista fu indubbiamente condizionato, anche parzialmente, dal gusto e dalle volontà del sovrano. Rosso Fiorentino, dotato di grande libertà espressiva, noto per il suo eclettismo, per le proprie stravaganze, non si piegò del tutto alle esigenze del committente. Come rileva il Venturi egli, pur adottando le composizioni dell’ambiente di corte, di sfarzo, non rinunciò “alla sua forza di costruttore, alla varietà delle immagini, delle linee, delle masse”. Dallo studio delle opere pittoriche, degli stucchi, delle stampe e dei disegni rimasti si è indotti a credere che l’artista volle esprimersi secondo una sorta di “antologia della Maniera”. Il Rosso sembra ripercorrere una figurazione riferibile a un repertorio culturale molto vasto, per la ricchezza di citazioni iconografiche e formali. Attinge ovviamente all’opera dei grandi maestri italiani (Michelangelo, Raffaello, Andrea del Sarto ma anche Pontormo e Parmigianino), senza rinunciare però a riproporre, con forza, figurazioni derivanti da proprie esperienze artistiche anche negative, come per esempio il probabile rifiuto, da parte del committente, della “Pala di Ognissanti”, per via di quei santi che parevano diavoli. Rosso Fiorentino avrebbe realizzato questa complessa “antologia” conferendogli caratteristiche che ne rendessero meno immediata e più difficile la lettura: allusioni simboliche e scelte estetiche esclusive, risolte mediante la fusione tra pittura, scultura, e architettura. L’artista si preoccupò, più che dei contenuti iconografici, di provocare un impatto visivo sullo spettatore, cercando anche di implicarlo sensualmente di fronte alle sue opere. Per questo tese a esaltare la figura umana, l’eros, trascurando il paesaggio e privilegiando l’architettura, considerando il nudo importante quanto l’architettura stessa.
Francesco I tese comunque a favorire più l’ornamento sfarzoso, il lusso, che l’autentica creazione d’arte. Egli volle probabilmente che gli artisti sviluppassero gli elementi celebrativi dell’arte attraverso l’interpretazione figurata e allusiva delle vicende degli eroi classici. A questo modo di concepire l’arte si adattò molto meglio il Primaticcio del Rosso. Il tracciato iconografico della Galleria Francesco I sembra condurre all’ipotesi che il ciclo sia stato eseguito nel rispetto di un programma, ricco di riferimenti all’antichità, con spunti per una riflessioni morale, politica e religiosa, dettato da un iconografo di corte, incaricato dal re. Il ciclo comprende soggetti storici e religiosi. Il soggetto storico si riconduce alla vicenda di personaggi famosi dell’antichità, eroine ed eroi del mondo orientale e romano (Cleopatra, Alessandro Magno, Scipione l’Africano). Il soggetto religioso riflette uno stretto collegamento con le idee estetiche, culturali e politiche diffuse nella corte francese. A Fontainebleau nasce e si sviluppa un’idea nuova di corte. Pitture e decori stabili prendono il posto degli arazzi, prediletti dai signori del tempo perché facili da avvolgere e trasferire. Cambia perciò il concetto di vita di corte, meno itinerante e più stabile. In Italia, i Gonzaga hanno già precorso il cambiamento: Mantova città ideale; il Palazzo Te, nuova corte modello.. A Roma, Le Stanze e Logge vaticane, o “Stanze e Logge di Raffaello”, da qualche anno completate, costituiscono un modello di decorazione da seguire. Nella Galleria Francesco I, si nota, tra gli altri, un preciso riferimento al Palazzo Te di Mantova. Si tratta della salamandra, scolpita e dorata sul pannello del rivestimento in noce della parete. L’animale rappresenta l’emblema di Francesco I e il suo significato è interpretato come”simbolo della costanza dell’uomo provato dalla sorte”. Al Palazzo Te di Mantova anche la scelta figurativa di Giulio Romano è influenzata dalle vicende personali del committente. Nella decorazione dei soffitti, la salamandra e sotto il cartiglio con il motto “quod huic deest me torquet” (“ciò che manca a costei è mio tormento”), stanno a simboleggiare l’amore di Federico II Gonzaga per l’amante, Isabella Boschetti. L’animale, noto per la sua leggendaria resistenza al fuoco, vuole essere l’allusione ai tormenti del fuoco d’amore ai quali Federico sarebbe stato soggetto. Pertanto il significato della salamandra, nella Galleria Francesco I, calzerebbe molto bene anche per la vicenda amorosa del re di Francia con la duchessa d’Etampes.
Molti furono gli artisti che lavorarono a Fontainebleau e ognuno di loro apportò comunque un contributo alla fioritura e all’evoluzione di un momento artistico irripetibile nella storia dell’arte in Francia. Rosso Fiorentino, fra tutti, rappresenta il personaggio di primo piano di quel periodo; egli lasciò in Francia, e soprattutto a Fontainebleau, un’impronta forte e indelebile che rimane ancora oggi. Influenzò e caratterizzò, con le sue invenzioni e con il suo stile, il lavoro di tutti gli altri artisti, per molti anni dopo la sua morte. Furono proprio gli italiani, presenti alla corte di Francia, a recepire per primi l’importanza della “ Maniera” del Rosso. Primaticcio, bolognese, già allievo e collaboratore di Giulio Romano, giunse a Fontainebleau nel 1532, e forse vi restò fino alla morte (1570).  Egli completò le decorazioni della sala da ballo, del padiglione, della Galleria, lasciate incompiute dal Rosso, per via della sua prematura morte (1540). Il suo capolavoro dovette essere però la celebre Galleria di Ulisse, opera grandiosa, oggi perduta, definita “la meraviglia del castello”, eseguita con l’aiuto di altri valenti artisti italiani, il fiorentino Luca Penni e l’emiliano Niccolò dell’Abate. Si contrappongono così a Fontainebleau due scuole: quella toscana, con la prevalenza dei fiorentini e quella lombarda con la prevalenza dei bolognesi. Tra gli emiliani sono da ricordare: Jacopo Barozzi da Vignola, arrivato in Francia tra il 1541 e il 1543, Ruggiero Ruggieri e  Francesco Scibec da Carpi che scolpì i pannelli in legno del rivestimento sulle pareti della Galleria. Sono poi passati da Fontainebleau: il pittore fiammingo Leonard Thiry, Sebastiano del Piombo, Francesco Salviati, Federico Zuccari e il veneto Paris Bordon. Nel 1540 (prima che il Rosso morisse) vi giunse anche il fiorentino Benvenuto Cellini, valente artista dal carattere rissoso e collerico. Si inimicò subito, infatti, la favorita del re, duchessa d’Etampes, forse per non tenerla nella dovuta considerazione e per far di testa sua opere non commissionate, mentre tardava indefinitamente a realizzare quelle dodici statue reggifiaccola d’argento che il Re desiderava collocare nei saloni del castello.
Tra il 1540 e il 1541 troviamo anche attivo come pittore, scultore, architetto reale di Fontainebleau, il veneziano Sebastiano Serlio, probabile autore della grotta del “Giardino dei Pini”, con bugnato e telamoni rustici. Seguono poi altri scultori come Girolamo della Robbia, anche ceramista, Domenico del Barbiere (già citato tra i bulinisti della “Scuola di Fontainebleau”), conosciuto come Domenico Fiorentino, anch’egli ceramista. Fontainebleau fu un cantiere fervidissimo, dove si confrontarono, si sovrapposero e si unificarono stili, elementi architettonici, conoscenze e culture diverse. In circa un ventennio si raggiunse una produzione artistica di eccezionale livello qualitativo. Essa costituisce il patrimonio della “grande Maniera” in Francia. L’arte di Fontainebleau resta perciò un capitolo a parte del Manierismo in Europa, intendendosi per Manierismo quel particolare periodo della cultura e dell’arte tardo-rinascimentale in cui la forma classica del Rinascimento si sviluppa in seducenti invenzioni e raffinati formalismi. Rosso Fiorentino rimane comunque la figura preminente, dominante nell’arte di Fontainebleau, il personaggio più rappresentativo di quella che fu poi definita, a ragione, la “ Ecole de Fontainebleau”.  L’esempio della decorazione della Galleria Francesco I arrivò presto anche oltremanica e indubbiamente l’opera del Rosso fu strettamente connessa con tutto l’impianto decorativo, oggi totalmente perduto, che si realizzò, dopo il 1538, al Palazzo di Nonsuch, in Inghilterra e che vide protagonista un altro artista italiano, Niccolò Bellini da Modena.






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