venerdì 24 febbraio 2017

Roy Lichtenstein (1923-1997) e la sua Mermaid di Miami Beach

 Roy Lichtenstein e la sua Mermaid in Miami Beach , Florida , U.S.A

Frequentando Miami Beach  ho attraversato molte volte il parco, di fronte al Teatro Fillmore. In considerazione del mio percorso artistico il particolare interesse che ho per tutto quello che fa parte della Pop-Art è ormai noto e indiscutibile. Pertanto mi ha sempre incuriosito e attratto l'opera scultorea di Roy Lichtenstein che vi si trova; rappresenta una sirena, il mare, la nuvoletta e il sole tra le palme (vere) . Tanto è vero che mi sono fatto fotografare più volte e in anni diversi proprio in quel luogo (vedi foto allegate). Siccome credo che non tutto avvenga per caso, nel novembre del 2013,  mi trovavo a Venezia; ai Magazzini del Sale, presso la Fondazione Emilio e Bianca Vedova, si teneva una mostra, aperta al pubblico fino al 24 novembre 2013, di alcune opere di Roy Lichtenstein. Mi precipitai a visitarla e seppure le opere esposte non fossero molte ritenni veramente importante  ed utile trovarmi lì. Alcune installazioni e disegni mi fecero conoscere meglio e a fondo la "Mermaid" ovvero "La Sirena". Mi sono potuto rendere conto del processo creativo seguito dallo stesso  Roy Lichtenstein per la sua realizzazione. Il  progetto risalirebbe al 1978 e fu attuato, nel parco del Teatro Fillmore a Miami Beach, un anno dopo, nel 1979; l'opera fu inaugurata con la posa di una targa celebrativa con iscrizione, in bronzo fuso o simile ( vedi foto). Elenco qui sotto le opere suddette che furono esposte a Venezia, ai Magazzini del Sale, c/o La Fondazione Emilio e Bianca Vedova, fino al 24 novembre 2013, più  le relative foto e altre :

Processo creativo per la realizzazione dell'opera Mermaid (1978) di ROY LICHTENSTEIN
 1) Studio del 1978  (Graphite and colorated pencil on paper) lapis e matite colorate su carta misure cm 52.7 x 65
2) Studio del 1978 (Tape, painted and printed paper on board) misure cm 182.9 x 183.5
7) Studio del 1978 (Graphite on paper) misure  cm 63.8 x 80
8) Studio del 1978 (MAQUETTE) Printed wood  misure 150.5 x 179.7 x 86.4

Goffredo Ademollo Valle






















giovedì 23 febbraio 2017

LA VISPA TERESA



Nella memoria delle generazioni risalenti alla fine dell' Ottocento e almeno per tutta la prima metà del Novecento c'era una simpatica filastrocca: "La vispa Teresa" che i giovani di oggi difficilmente conoscono, anche perché i loro genitori probabilmente l'hanno dimenticata o non l'hanno mai conosciuta. Voglio pubblicarla perché mi piacerebbe invece che venisse ricordata e lo stesso vale per la parodia attribuita al grande poeta romano conosciuto come Trilussa. E' stata proprio questa  parodia a influire sull'opinione popolare comune inducendo a considerare una fantasiosa parte negativa del personaggio Vispa Teresa; una spensierata ragazzina un po' sbarazzina che si trasforma in una maliziosa "Lolita" che si avvicina più al personaggio della Nana dell'omonimo romanzo di Emile Zola.  L'Autore de "La Vispa Teresa" è Luigi Sailer, uno scrittore nato a Milano nel 1825 , quasi sconosciuto; questa è la sua più celebre poesia conosciuta, scritta intorno al 1850.

LA VISPA TERESA

La vispa Teresa
avéa tra l’erbetta
a volo sorpresa
gentil farfalletta,
e tutta giuliva
stringendola viva
gridava a distesa:
“L’ho presa, l’ho presa!”

A lei, supplicando,
l’afflitta gridò:
“Vivendo volando
che male ti fò?
Tu si mi fai male
stringendomi l’ale.
Dhe, lasciami! Anch’io
son figlia di Dio”!

Confusa, pentita,
Teresa arrossì,
dischiuse le dita
e quella fuggì!

Nel 1917, però si tramanda che un altro italiano, Carlo Alberto Salustri, conosciuto come Trilussa, avrebbe continuato questa poesia rendendola più ironica e dissacrante con una  parodia a lui attribuita . La vispa Teresa, crescendo, è diventata una donna di facili costumi ma sola.

La Vispa Teresa

Se questa è la storia,
che sanno a memoria
i bimbi di un anno,
pochissimi sanno
che cosa le avvenne
quand’era ventenne!

Un giorno di festa,
uscendo di Chiesa
la vispa Teresa
alzava la vesta
per farsi vedere
le calze sciffonne,
che a tutte le donne
fan tanto piacere.

Armando, il pittore,
vedendola bella,
le chiese il favore
di far da modella.
“Verrete?” “Verrò,
ma badi però…!”
“Parola d’onore!”
rispose il pittore.
Il giorno seguente,
Armando, l’artista,
stringendo furente
la nuova conquista,
gridava a distesa:
“L’ho presa, l’ho presa!”

“Così mi fai male
la spina dorsale!
Mi lasci ! Che anch’io
son figlia di Dio!
Se ha il suo programma
ne parli a la mamma!”
A quella minaccia
Armando tremò,
dischiuse le braccia,
ma quella restò!

Perduto l’onore,
sfumata la stima,
la vispa Teresa
più vispa di prima,
per niente pentita,
per niente confusa,
pensò che l’onore
non è che una scusa.

Per circa tre lustri
Fu cara a parecchi,
fra giovani e vecchi,
fra oscuri ed illustri.
La vispa Teresa
fu presa e ripresa.
Contenta e giuliva
Soffriva e s’offriva!
(la donna che soffre
se apostrofa l’esse
ha tutto interesse
di dire che s’offre!)

Ma giunta ai cinquanta,
con l’anima affranta,
col viso un po’ tinto,
col resto un po’ finto
per trarsi d’impàccio
dai prossimi acciacchi,
apriva uno Spaccio
di Sale e Tabacchi.

Un giorno, un cliente,
chiedendo un “toscano”
le tese la mano,
così…casualmente.
Teresa la prese,
la strinse e gli chiese:
“Mi vuole sposare?
Farebbe un affare!”
Ma lui, di rimando,
rispose: “No, No!
Vivendo fumando
che male le fò?”
Confusa e pentita
Teresa arrossi,
dischiuse le dita,
e quello fuggì!

Ed ora Teresa,
pentita davvero,
non ha che un pensiero
d’andarsene in Chiesa.
Con l’anima stracca
Si siede e stabacca,
offrendo al Signore
gli avanzi di un cuore
che batte la fiacca.

Ma spesso guardando
con l’occhio smarrito
la polvere gialla
che resta nel dito,
le sembra il detrito
di quella farfalla
che un giorno ghermiva
stringendola viva.

Così, come allora,
Teresa risente
la voce innocente
che prega ed implora:
“Dhe, lasciami! Anch’io
son figlia di Dio!
Fu proprio un bel caso”
sospira Teresa,
fiutando la presa
che sale nel naso.
“Se qui non son lesta
mi scappa anche questa!”

E fiùta e rifiùta,
tossisce e sternùta,
il naso è una tromba
che squilla e rimbònba
e pare che l’eco
si butti allo spreco!

Fra un fiòtto e un rimpianto,
tra un sòffio e un eccì,
la vispa Teresa…
…lasciàmola lì!

L’affascinante e avventurosa storia di Tina Modotti(1896-1942), una donna passionale, sensibile, ricca di talento.

L’affascinante e avventurosa storia di Tina Modotti(1896-1942), una donna passionale, sensibile, ricca di talento.

"Le donne devono fare qualunque cosa due volte meglio degli uomini per essere giudicate brave la metà. Per fortuna non è difficile."
"Whatever women do they must do twice as well as men to be thought half as good. Luckily, this is not difficult."
Charlotte Whitton
 Vorrei onorare la memoria di Tina Modotti, una grande donna italiana che nella prima metà del secolo scorso si rese famosa in America per la sua bellezza, per il suo coraggio, la sua audacia e il suo talento, per la sua vita avventurosa. Il poeta cileno Pablo Neruda che le fu amico le dedicò questi versi come epitaffio della tomba situata nel Pantheon De Dolores a Città del Messico:
“Tina Modotti, sorella, tu non stai dormendo,no, non dormi/ forse il tuo cuore ode crescere la rosa/ di ieri/ l’ultima rosa di ieri, la nuova rosa. Riposa dolcemente sorella….”
Tina Modotti nasce a Borgo Pracchiuso, piccolo paese in Provincia di Udine, il 6 agosto 1896, in una famiglia di sette figli le cui condizioni economiche sono critiche. Ha soltanto dodici anni  e già lavora come operaia in una filanda, mentre il padre decide  di emigrare in America. Parte da solo per San Francisco, la famiglia lo raggiungerà più tardi quando si sarà sistemato. Tina arriva in America nel 1913. Subito trova lavoro come operaia in una fabbrica  tessile. Si sente affascinata dal Nuovo Mondo  e, nel tempo libero, comincia a frequentare mostre, musei e teatri. Durante una visita all’Esposizione internazionale Panama-Pacific conosce Robo, colui che diventerà suo marito. Si tratta dell’artista canadese Roubaix de l’Abrie Richey, pittore e poeta. Nel 1917, dopo essersi sposati, vanno a vivere in California, a Los Angeles. La loro unione non è sostenuta solo dall’amore ma anche dalla passione comune per l’Arte e la poesia. La loro casa diventa un punto di incontro per artisti e intellettuali progressisti. E’ allora che Tina tenta la carta del Cinema interpretando The Tiger’s Coat  e  partecipando ad altri film muti in parti secondarie. Ma non è quella del Cinema la strada che intende percorrere. Purtroppo nel febbraio del 1922, durante un viaggio in Messico, Robo muore di vaiolo. Tina farà appena in tempo a raggiungerlo per dargli l’ultimo saluto e sarà proprio questa drammatica circostanza che le farà scoprire il Messico. Ritornata a Los Angeles inizia una relazione con il famoso fotografo Edward Weston, conosciuto durante le precedenti esperienze cinematografiche. Nel 1923 Tina e Edward si stabiliscono in Messico. In questo periodo Tina comincia a occuparsi attivamente di politica, ma accanto a Weston  comincia anche ad apprendere i segreti dell’arte della fotografia e già  nel 1924 espone le sue opere accanto a quelle del compagno. Ecco però che il loro rapporto entra in crisi , i due decidono di vivere separatamente. Weston va a vivere in California,  mentre Tina resta in Messico dedicandosi sempre di più alla politica. Per questo utilizzerà anche le sue esperienze fotografiche. Ella vede  l’arte della fotografia come un potente mezzo di denuncia sociale e politica. Nel 1928 si lega a Julio Antonio Mella, un giovane rivoluzionario cubano. Lo ha conosciuto circa un anno prima, a Città del Messico, durante le manifestazioni  a favore degli immigrati italiani Sacco e Vanzetti, condannati a morte. Il loro fu un legame breve poiché Julio viene ucciso davanti ai suoi occhi dai sicari del dittatore di Cuba Gerardo Machado. Tina scampa miracolosamente all’agguato. La polizia per coprire i veri autori dell’omicidio arriverà addirittura ad accusarla di aver ucciso l’amante per gelosia. Il 5 Febbraio 1930 Tina viene arrestata ed espulsa con l’accusa di avere cospirato  e ordito un attentato contro il nuovo capo dello Stato Pasqual Ortiz Rubio. Tina Modotti torna in Europa : Olanda, Germania, Unione Sovietica. L’ultimo suo compagno è l’italiano Vittorio Vidali. Insieme a lui partecipa alla guerra civile spagnola lavorando negli ospedali. Rientra in Messico insieme a Vidali. Muore di infarto, in taxi, la sera del 5 Gennaio del 1942. Tina Modotti , una donna generosa  che ha vissuto all’insegna della passione dando il meglio di  se stessa, senza riserve; una donna che ha tanto  amato ed è stata tanto amata .

Pietro Valle, uomo illuminato del XIX secolo di Goffredo Ademollo Valle

Pietro Valle, uomo illuminato del XIX secolo di Goffredo Ademollo Valle 
Pietro Valle, mio trisavolo, fu un uomo illuminato, lungimirante che amò la terra di Maremma e si prodigò in ogni modo per la sua economia e il suo sviluppo. Si adoperò per i giovani e per la liberta' di insegnamento. A lui si devono tante migliorie per l'agricoltura; prese a cuore e sostenne progetti che poi furono realizzati dopo la sua morte per sviluppare le comunicazioni e la viabilità delle strade collinari e montane, allora impraticabili o percorribili con difficoltà. Dalla realizzazione di questi progetti la Maremma ne trae beneficio tutt'oggi.

PIETRO VALLE di Scansano (Gr)










Pietro Valle nacque a Scansano il 30 dicembre 1795 da Natale Valle e Maria Angela Saliti. Perse il padre Natale quando non aveva ancora compiuto sei anni e qualche anno dopo morì anche la madre. Pietro e la sorella Teresa, nata nel 1797, rimasero perciò orfani in tenerissima età. Il loro mantenimento era comunque garantito dalle rendite del patrimonio ereditato dal padre. E' molto probabile che qualche parente della madre si sia occupato della loro educazione e formazione; sicuramente fu all'altezza di questo compito visto che i ragazzi godettero di un'ottima istruzione. Furono ambedue capaci di affrontare la vita con risultati positivi e tanto più Pietro che si distinse particolarmente per il suo precoce senso di responsabilità e indipendenza. Teresa sposò, giovanissima, Giandomenico Citerni, proprietario terriero; da questo matrimonio nacquero sette figli: Elisabetta, Maria Teresa, Carlo, Bernardino, Luigi, Angela e Benedetto (Angela sposò Giambattista Biserni di Giacomo nel 1845; Benedetto sposò Maria Donatelli di Giovanni; Luigi sposò Felice Canetti; Maria sposò Giuseppe Rauggi). Pietro in particolare dimostrò di possedere un'intelligenza vivacissima e innate doti di apprendimento che gli permisero di dedicarsi prestissimo all'amministrazione del proprio patrimonio e agli affari. Egli aveva ereditato dal padre lo spirito intraprendente e la passione per l'agricoltura e per il commercio. Nel 1818, ad appena ventidue anni, decise di crearsi una famiglia sposando la compaesana Aloisa Bellucci, allora venticinquenne. Un anno dopo nacque il primo figlio Natale Luigi. Impadronitosi degli affari del padre si dedicò soprattutto al commercio che consisteva nel rifornire il paese di Scansano ed il suo comprensorio della maggior parte delle merci che occorressero per soddisfare le necessità della popolazione; cereali, legnami, olio d'oliva, tessuti, medicinali ed altro ancora. Nel frattempo seguendo anche la sua passione per l'agricoltura e disponendo di ingenti entrate finanziarie, provenienti dal commercio,  ingrandiva notevolmente il suo patrimonio terriero oltre a quello immobiliare. Poggio Cappone, Il Terzolo, Monte Puzzola, Il Pin Grosso (intestato poi a suo figlio illegittimo di nome Vanni) e le aziende Banditaccia Valle e Campospillo, nel comune di Magliano, furono le sue proprietà terriere più importanti. Contemporaneamente acquistò case e negozi  nel paese di Scansano, nei dintorni e anche a Grosseto. In Scansano In Piazza del Commercio, oggi Piazza Garibaldi, volle costruire la sua abitazione ed un altro palazzo lo costruì in Via Marina, oggi Via XX Settembre. Il Direttore amministrativo delle sue attività fu Igino Caciai, uomo intelligente e di grandi capacità che godette di tutta la sua fiducia e stima. Nel 1843 morì sua moglie Aloisa di quarantacinque anni ( nella Chiesa "Della Botte" di Scansano egli volle che fosse posta una lapide  per onorarne la memoria che ancora oggi si trova murata alla sinistra di chi entra ). Nel 1855 morì, a trentasei anni, di colera, il suo amatissimo figlio Natale Luigi che aveva sposato, nel 1847, la scansanese Angela Quadri di Stefano e Rosa Chelini, la quale gli aveva dato cinque figli: Luisa I (1847)', Rosa (1849), ambedue morte in tenerissima età e Angelo (1851), Benedetto (1852) e Luisa II (1854) che rimasero appunto senza padre. Questa morte prematura lo costrinse a fare le veci del padre per i tre nipoti dedicando loro tutte le attenzioni e le cure e per offrirgli una buona educazione morale e civile oltre che un'adeguata istruzione. Coadiuvato dalla nuora Angela Quadri, donna di intelligenza vivace, di forte personalità, attiva e intraprendente, svolse questo ruolo in modo egregio, coscenzioso e tantomeno li trascurò anche quando nel 1856 si unì di nuovo in matrimonio con Maria Trimpelli, nubile, di quarantatre anni, figlia di Maddalena Orlandini. Il nipote Benedetto morì a solo 28 anni per polmonite mentre Angelo Valle (1851-1926) intraprese la carriera politica che lo portò a sedere nel Parlamento del Regno d'Italia diciassette anni dopo la morte del nonno Pietro. Per raggiungere ciò oltre al patrimonio ereditato dal nonno ebbe un forte appoggio finanziario (allora fare politica aveva dei costi onerosi)  dalla madre Angela la quale si prodigò molto, finché visse, per favorire la carriera del figlio ( Angela Quadri morì nel 1902; viene ricordata oltre che per il suo carattere autoritario anche per il suo aspetto fisico: alta quasi un metro e ottanta con un personale magnifico e con un volto dalle fattezze marcate). Angelo sedette in Parlamento, come deputato, dal 1886 al 1906 per cinque legislature (dalla XVI alla XX) ed ebbe relazioni anche di amicizia con  molti illustri uomini politici del tempo ( Agostino De Pretis, Sidney Sonnino, Giuseppe Zanardelli, Ricciotti Garibaldi, Giovanni Giolitti ecc.)  tra i quali il più importante fu Francesco Crispi con il quale collaborò attivamente e con grande impegno  all'attuazione di un comune programma politico e finanziario oltre che alla politica estera. Francesco Crispi gli manifestò più volte e in più occasioni ( esistono tra i documenti di famiglia lettere, telegrammi, biglietti, fotografie con dedica che lo testimoniano) la sua grande e sincera stima. Seguendo le orme del nonno Pietro anch'egli mostrò sempre interesse per il bene comune e si batté con tutte le sue forze per i problemi che affliggevano la Maremma e per il mantenimento dei suoi valori e della sua identità rivolgendo la sua attenzione verso i tre grandi obiettivi da perseguire per il bene del popolo: l'istruzione, il lavoro e il risparmio. Nella vita e nell'opera di Pietro Valle, a testimonianza di quanto anch'egli tenesse proprio a questi obiettivi, abbiamo le sue lettere, pubblicate nel 1863, in Firenze, dalla Tipografia di F.Bencini, Via dei Pandolfini n.24, con il titolo "LA MAREMMA GROSSETANA e la conservazione della sua autonomia provinciale - Lettere di Pietro Valle". L'amore per l'agricoltura lo condusse per molto tempo a collaborare con "La Gazzetta delle Campagne" di Firenze e a partecipare per due anni come corrispondente al quotidiano "Il Popolano" sempre di Firenze. Collaborò anche con il Giornale delle Arti e delle Industrie . Quanto gli stettero a cuore i problemi della sua terra e della gente bisognosa che vi abitava  lo dimostra anche la proposta che egli fece al Granduca di Toscana che poi coscientemente accolse per creare le colonie agricole  dei "Gettatelli". Dette colonie concorsero utilmente a sopperire alla penuria di mano d'opera. Per l'agricoltura soprattutto locale egli spese tante energie e la conferma di questo si può trovare anche nel suo testamento dove egli sottolineando che l'ambiente naturale della zona è particolarmente vocato alla coltivazione dell'olivo, lascia un fondo al Comune destinato a due premi annuali di 50 lire ciascuno da assegnare ai migliori due potatori di olivi che più si fossero distinti per il loro lavoro durante l'anno. Si prodigò in prima persona, facendo richiesta nel 1864 al Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio, per realizzare il progetto relativo alla costruzione di una strada comunale per Manciano che fu poi realizzata solo diversi anni dopo la sua morte. Tale strada avrebbe consentito e agevolato (come poi è avvenuto) gli scambi economici e culturali con i paesi vicini della valle dell’Albegna e avrebbe concorso a valorizzare i terreni di quella zona allora quasi deserta, fatta eccezione per l'area occupata dalla fattoria di Pomonte. Vide nascere e sostenne quello che poi diventerà il fenomeno dell'Estatatura. Già nel 1810 un decreto napoleonico stabiliva che il Tribunale Circondariale di prima istanza fosse trasferito da Grosseto a Scansano rimanendo anche d'inverno. Circa alla metà dell'Ottocento fu istituita l'Estatatura che consisteva nel trasferimento degli uffici pubblici  di Grosseto a Scansano nelle stagioni più calde a causa della malaria che imperversava nelle pianure e nelle basse colline e verrà poi abolita definitivamente il 20 Luglio 1897. La condizione di essere, anche per il solo periodo estivo, considerati cittadini del capoluogo costituirà per la popolazione scansanese motivo di vanto e di orgoglio ma anche un sentimento di boria e di vanità che rimarrà anche dopo la fine dell'Estatatura. Corrado Valle scriverà che "La presenza del Prefetto, di numerosi funzionari e di altre autorità provinciali dava al paese un notevole impulso di vita e contribuiva a dargli l'aspetto di località di soggiorno di un certo tono, rispetto agli altri centri della provincia".  Ma con la fine dell'Estatatura vennero soprattutto a mancare al Comune di Scansano la maggior parte delle risorse economiche sulle quali si basava il Bilancio comunale e il tessuto sociale del paese. Fu allora che Angelo Valle, quale deputato scansanese in Parlamento, prese l'iniziativa e sostenne la richiesta del Consiglio Municipale di Scansano al Governo di un equo indennizzo. Dopo una serie di proposte e controproposte nel 1902 il Governo elargì una somma di £.100.000 da destinare ad opere di pubblica utilità, chiudendo la pratica dell’indennizzo a Scansano per i danni subiti. L’Amministrazione Comunale scansanese, dopo un referendum che sancì una spaccatura tra il capoluogo e le frazioni, specie quella di Montorgiali e Polveraia, stabilì che la somma di £. 100.000 venisse così destinata: £. 50.000 come quota di concorso alla provincia per la sistemazione della strada Scansano – Grosseto; £. 25.000 per lavori di ampliamento dell’Ospedale scansanese; £. 10.000 come fondo di riserva per concorso alle spese di un miglior mezzo di locomozione per la strada Scansano – Grosseto ; £. 15.000 per la sistemazione della Fonte di Scansano. Pietro Valle fu un uomo dal sentimento espressamente liberale; per la sua spiccata intelligenza, per i suoi molteplici interessi, per la sua fervida e multiforme attività, per la sua  eloquenza fu soprannominato "Settecervelli". Si preoccupò sempre delle persone più sfortunate e bisognose con particolare attenzione per i trovatelli e per gli orfani dei quali si sentiva benefico padre sempre pronto a trovare risorse e soluzioni per aiutarli. Si mantenne attivo fino al giorno  della sua morte, avvenuta per complicazioni polmonari, la mattina del 21 Gennaio 1869. La sua morte fu il tema di molti articoli necrologici che furono raccolti e pubblicati dalla Tipografia di Giuseppe Barbarulli in Grosseto nel 1869 con il titolo "Cenni necrologici in memoria di Pietro Valle da Scansano".
Così scrisse  G.Selvi ne "La Nazione" del 11 Febbraio 1869 N.42 nel necrologio di Pietro Valle  " ...Amò e intese la libertà come l'amano e intendono i buoni: troppo sagace ed accorto per esser gabbato dalle parole. Quindi pensò che la religione della quale fu sempre osservantissimo, fosse condizione essenziale a qualunque verace patriottismo, a qualunque verace progresso, a qualunque miglioramento della società. E aggiunse l'esempio all'insegnamento: poiché, onest'uomo con tutti, affettuoso coi suoi, benevolo cogli amici, generoso coi poveri, rassegnato nelle disgrazie, e ilare sempre e religioso, seppe obliare le ingiurie, perdonare ai nemici, serbare incontaminato se stesso e chiudere una vita laboriosa nel bacio soave del Signore. Tale fu in vita Pietro Valle!....)

Capalbio 22 Luglio 2016
Goffredo Ademollo Valle


ROSSO FIORENTINO a Fontainebleau

ROSSO FIORENTINO a Fontainebleau di Goffredo Ademollo Valle

Francesco I, Re di Francia, reduce dalla prigionia spagnola che lo aveva visto umiliato di fronte all’intera Europa, ritorna in patria, nel 1526, con il desiderio e l’ambizione di regnare da gran sovrano. Mai come allora Francesco I sentì il bisogno di seguire e interpretare lo spirito rinascimentale che aveva ormai conquistato tutte le corti europee e che consisteva, soprattutto in campo artistico, nel dare impulso al rifiorire delle attività propriamente umane: poetiche, letterarie, artistiche, religiose e morali. Gli influssi della cultura italiana in Francia erano vivi da secoli, dal Medioevo al Quattrocento. Francesco I, consapevole dell’educazione umanistica che in quel tempo ogni buon sovrano doveva necessariamente possedere, si dimostrò più che mai sensibile al fascino della penisola italiana e delle sue corti, da lui guardate come modelli di vita. I suoi soggiorni, durante le campagne di guerra, in Italia, avevano rafforzato in lui l’amore per l’arte e il desiderio di circondarsi dei più alti e illustri ingegni che il Rinascimento stava producendo. Già in precedenza, nel 1516, era riuscito ad avere presso di sé, nel castello di Cloux, Leonardo da Vinci il quale gli sarebbe poi, tre anni dopo, spirato tra le braccia.  Francesco I si propose di realizzare a Fontainebleau, luogo situato nelle vicinanze di Parigi e da lui amato per via della foresta (dove diceva di potersi dedicare “ al piacere della caccia delle bestie nere e rosse”), una corte regale, esclusiva, raffinatissima, elegante ed emancipata sul modello di quelle già conosciute in Italia (per esempio la corte isabelliana del Ducato di Mantova, dove Giulio Romano sovrintendeva, fin dal 1524, sotto gli occhi del committente Federico II Gonzaga, ai lavori de “la fabbrica del Te”). L’idea di Fontainebleau, come corte “gioiello”, probabilmente nasce lentamente; si evolve e si matura nel tempo. Fin dall’inizio dei lavori, infatti, mancò la figura di un vero e proprio architetto, ideatore, sovrintendente e coordinatore in assoluto dell’intera “fabbrica”. Si lavorò sul preesistente piuttosto che sul nuovo. Questo spiega la mancanza di unitarietà dell’architettura e di armonie stilistiche nelle facciate degli edifici.
Nel 1528 si dette inizio alle opere di ristrutturazione degli edifici medievali esistenti, aggiungendo nuove costruzioni, conformi a criteri architettonici e decorativi dettati dal Rinascimento italiano, dove prevalsero soprattutto idee di funzionalità e distribuzione razionale degli spazi.
Francesco I, monarca intelligente, amante delle lettere e delle arti, mecenate e protettore degli ingegni, aspirò a realizzare in Fontainebleau, avvalendosi dei maestri delle grandi scuole italiane, più e meglio di quanto fosse stato già fatto a Roma con Michelangelo e Raffaello, a Mantova con Giulio Romano, a Firenze con i numerosi altri artisti. Per attuare il suo ambizioso progetto, il sovrano si circondò, quindi, di una corte di gentiluomini, di dame, di prelati, di letterati e soprattutto d’artisti.
Il primo artista italiano che giunse a Fontainebleau, chiamato a decorare le nude pareti del rinnovato castello, è Giovanbattista di Jacopo detto “Rosso Fiorentino”.
Secondo il racconto vasariano, il Giovedì Santo dell’anno 1530, Rosso Fiorentino si trovava a Sansepolcro, in Toscana. Una rissa, scoppiata in chiesa, per futili motivi, gli avrebbe fornito l’occasione per lasciare definitivamente l’Italia. Da Sansepolcro, per la via di Pesaro, il Rosso giunse a Venezia, dove fu ospite di Pietro Aretino. Si pensa che i due si fossero già conosciuti a Roma, forse nel 1524 o 1525. Il toscano Pietro, scrittore, poeta, dittatore del gusto, amico di pittori, consigliere di sovrani, era famoso per il suo fiuto finissimo nelle cose dell’arte e della politica. Era molto attento e vigile su quanto stava accadendo, non solo nelle corti europee; ebbe relazioni epistolari con il Sultano d’Oriente, Solimano I il Magnifico, e anche con il suo Ammiraglio, Ariodeno detto il Barbarossa.
 A Venezia, Rosso Fiorentino eseguì, forse proprio su richiesta dell’Aretino, il noto disegno raffigurante Venere e Marte. Così dal Vasari: “Gli disegnò in una carta, che fu poi stampata, un Marte che dorme con Venere e gli Amori e le Grazie che lo spogliano e gli traggono la corazza.”
Il soggetto sembra alludere al matrimonio fra il re di Francia ed Eleonora d’Austria.
Il medesimo fu ripreso poi dallo stesso Rosso Fiorentino per una pittura a olio, oggi purtroppo perduta, che si trovava alla fine della Galleria Francesco I, sul lato Ovest.
Il disegno, oggi al Louvre, fu inviato in dono, dall’Aretino al re di Francia, come biglietto da visita dell’artista toscano. Sarebbe stato perciò l’Aretino (la notizia è da considerarsi attendibile perché supportata da alcune notazioni su lettere) a raccomandare Rosso Fiorentino presso Francesco I. Fatto sta che nel mese di Novembre del 1530 il Rosso si trova a Parigi, al servizio del sovrano. Alcune lettere d’Antonio Mini, scritte a Michelangelo, nel Dicembre 1531 e nel Gennaio 1532, affermano il successo e i favori che l’artista stava ottenendo presso la corte francese. Fu anche nominato canonico di Notre Dame e della Sainte Chapelle. Nei primi mesi del 1532 Rosso Fiorentino aveva già cominciato a lavorare ai progetti della Galleria di Fontainebleau; ma solo al momento dell’attuazione delle opere progettate avverrà il suo trasferimento da Parigi al cantiere del castello. I pagamenti lo confermano in attività dal luglio 1533 fino al 1539. Nel 1536 è indicato come direttore di tutti i lavori. Il Rosso visse in terra di Francia da gran signore. Il Vasari tramanda che l’artista si trovò ad avere, poco avanti alla sua morte, “più di mille scudi d’entrata, senza le provvisioni dell’opere, che erano grossissime”; e aggiunge che egli visse, più da principe che da pittore, in una casa fornita di tappezzerie, d’argenti e masserizie di valore, avendo al proprio seguito numerosi servitori e cavalcature. Il re rimase senza dubbio affascinato dal talento artistico del pittore fiorentino, ma quello che forse contribuì, più di ogni altra cosa, a conquistarlo fu la seducente personalità del Rosso. Egli si fece apprezzare per il modo di atteggiarsi, per il suo parlare, per le profonde conoscenze in campo letterario, musicale e ovviamente artistico. Il Vasari, che senza dubbio lo conobbe bene e personalmente, lo definisce così:
“Dotato di bellissima presenza; il modo di parlare suo era molto grazioso e grave; era bonissimo musico; ed aveva ottimi termini di filosofia”.
Quando Rosso Fiorentino arrivò in Francia le strutture murarie della Galleria erano quasi completate, sotto la guida dell’Architetto Gilles Le Breton, anche se un ruolo di primo piano sembra averlo avuto un altro architetto, Piero da Padova, detto “l’italiano”. Il Rosso iniziò a lavorare in Fontainebleau alla decorazione della sala del padiglione, situata all’ultimo piano dell’edificio.
E’ ancora il Vasari a descriverla: ricchissima di ornamenti, stucchi, fregi, pitture, con figure a tutto tondo, putti, festoni e animali. Vi furono realizzati due grandi affreschi, alle pareti, raffiguranti gli amori di Vertumno e Pomona; la sala fu detta poi “ il padiglione di Pomona”.
Le opere andarono distrutte con l’abbattimento del padiglione, circa nel 1765-1766, sotto Luigi XV. Di uno degli affreschi rimane, al Louvre, un interessante disegno preparatorio del Rosso. Esaminandone i particolari si notano quattro profili umani, grotteschi, a forma di semiluna, disposti simmetricamente ai limiti del disegno. E’ evidente che si tratta dello studio di quattro stucchi. Li stessi soggetti sono da ritenersi un’invenzione “rossesca” e si ritrovano realizzati nella decorazione a stucco della Galleria Francesco I (per es. in corrispondenza del primo riquadro, parete sud, ai lati, in basso, dei Satiri maschio e femmina). Infatti, Rosso Fiorentino lavorò alla decorazione della sala da ballo e poi a quella, più complessa, della Galleria. Ambedue furono lasciate incompiute a causa della sua prematura morte, sopraggiunta nel 1540. Ma l’artista fiorentino, in Francia, si dedicò anche alla realizzazione di apparati ornamentali e opere che potremmo definire effimere o meglio “a perdere”: archi trionfali, colossi, mascherate, scenari. Disegnò abbigliamenti per cavalli e anche saliere, vasi e altri oggetti che probabilmente si realizzarono in argento. Alcuni saranno andati dispersi altri sono ancora da riconoscere. C’è da ricordare che, a parte la Pietà del Louvre, proveniente dal castello di Ecouen, poco o niente rimane di integro della pittura prodotta in Francia da Rosso Fiorentino (anche la piccola tavola raffigurante “Le défi des Pierides”, al Louvre, potrebbe essere lo studio, eseguito in Francia, per un grande quadro destinato a Francesco I; l’opera riprende però una composizione già inventata dal Rosso a Roma, e diffusa attraverso l’incisione del Caraglio). Attualmente, in Fontainebleau, nella Galleria Francesco I, sono ancora visibili alcune pitture che, seppure abbondantemente rimaneggiate e ritoccate, sono da considerare in stretto rapporto con le opere originali dell’artista.
Esemplare dello stile del Rosso è l’affresco de “la fontana della giovinezza”; vi si ravvisano figure di chiara invenzione “rossesca”: sulla destra, le due vecchie, dai profili arcigni, spigolosi, dai corpi scheletrici, un po’ diabolici che richiamano il San Girolamo della Pala di Ognissanti o la Sant’Anna (Santa Elisabetta) della Sacra Famiglia di Los Angeles, personaggi, come scrive il Vasari, dalle“arie crudeli e disperate”e “l’acconciature de’panni bizzarre e capricciose”. Sulla sinistra la figura di giovane donna, in una posa di abbandono, ricca di profonda sensualità, con il braccio rilasciato, rimanda al Cristo morto di Boston, alla deposizione di Sansepolcro e ancor più al quadro della morte di Cleopatra che si trova a Braunschweig, in Germania.
Nei lavori eseguiti a stucco è ben riconoscibile, come abbiamo già detto, la mano dell’artista (i putti abbracciati, sotto i medaglioni della parete minore, a Est; l’impianto architettonico e le figure, sul lato destro dell’affresco raffigurante “il sacrificio”; e ancora putti, festoni e mascheroni).
Il Rosso lavorò anche a due quadri a olio che dovevano essere collocati sulle pareti minori della Galleria, a Est e a Ovest (dove attualmente sono le porte). Quello della parete Ovest sarebbe stato il quadro (già citato a pag.3) di Venere e Marte, allegoria del matrimonio tra il Re e Eleonora d’Austria. Una tela che raffigura Bacco, Venere e Cupido, conservata nel Museo Nazionale d’Arte e Storia, in Lussemburgo, è stata recentemente riconosciuta da alcuni come copia (altri la ritengono opera autentica del Rosso) del dipinto, che in origine dovette essere ovale, previsto per la parete Est.
Per meglio ricostruire il ciclo pittorico originale della Galleria, assume fondamentale importanza la documentazione costituita dalle stampe. Si tratta di incisioni, eseguite intorno alla metà del XVI secolo, che destano grande interesse proprio per risalire alle opere da cui furono ricavate.
Adam von Bartsch, circa nel 1820, accorpò tutta la produzione acquafortistica sotto il nome di “ Anonymes de l’Ecole de Fontainebleau”. Questo nome, poi ridotto a “Scuola di Fontainebleau”, ebbe risonanza internazionale ed è, a tutt’oggi, identificativo dello stile e del periodo artistico riferibile al tempo di Rosso Fiorentino, Primaticcio (compresi gli altri artisti che poi elencheremo) e alla “Maniera” che essi introdussero in Francia. Gli acquafortisti che operarono nell’ambito della ”Scuola di Fontainebleau” sono otto, dei quali Antonio Fantuzzi, Jean Mignon, Leonard Limosin, Geoffroy Dumoutier e George Boba praticarono anche la pittura. La loro attività incisoria si rivolse soprattutto alla riproduzione dei disegni e dei lavori in pittura e stucco nel castello di Fontainebleau. Le acqueforti più significative, dove si riconosce chiaramente la riproduzione di soggetti e invenzioni di Rosso Fiorentino, sono per la maggior parte di Antonio Fantuzzi e di Geoffroy Dumoutier, seguono poi Leonard Limosin e il Maestro LD, da identificarsi in Leonard Davent. Ci sono anche delle incisioni eseguite dai bulinisti della “Scuola di Fontainebleau”, Domenico del Barbiere, Rene Boyvin e Pierre Milan. Solo l’ultimo riprodusse 20 stampe, tratte dal soggetto “gli amori degli Dei” del Rosso. L’acquaforte con la scena di “Ercole e Anteo” (attribuita al Fantuzzi), anche se non riguarda direttamente la Galleria Francesco I, conferma l’importanza che la conoscenza della produzione artistica di Rosso Fiorentino andava assumendo in Francia nel terzo e nel quarto decennio del Cinquecento. In essa vi sono chiare allusioni ai disegni del Rosso raffiguranti “Le fatiche e le avventure di Ercole”, conosciuti attraverso le incisioni di Gian Jacopo Caraglio (circa 1524). Ma ancor più evidenti sono i riferimenti  al suo quadro “Mosè che difende le figlie di Jetro” ( la tela, oggi a Firenze, agli Uffizi, fu inviata a Francesco I, intorno al 1530, da Battista della Palla. Nel 1632, in seguito al lascito di Don Antonio de’Medici, entrò a far parte delle collezioni medicee). L’incisore di “Ercole e Anteo”sembra avere ben osservato le opere del Rosso cogliendone gli aspetti più rilevanti. L’Ercole come il Mosè sono rappresentati in azione, nel pieno del combattimento, al centro della scena; campioni invincibili, in preda a un’inconsueta violenza. Sia nel dipinto che nell’incisione si accentua la sessualità dei protagonisti con gli attributi maschili raffigurati nel centro geometrico della composizione. Ercole, incarnazione della “fortitudo” e Mosè, “il profeta armato”; l’eroe greco e il profeta biblico sono entrambi esempi di Virtù e vengono considerati dalla dottrina e dall’allegoria religiosa anticipatori della venuta di Cristo. Il dipinto del “Mosè che difende le figlie di Jetro” resta comunque una delle opere più enigmatiche della storia dell’arte del Cinquecento.
La decorazione della Galleria Francesco I, a Fontainebleau, sebbene sia stata portata a termine dal Primaticcio, rimane il punto focale dell’attività del Rosso in Francia, anche se non sembra essere la migliore espressione di spontaneità del maestro fiorentino, giacché l’artista fu indubbiamente condizionato, anche parzialmente, dal gusto e dalle volontà del sovrano. Rosso Fiorentino, dotato di grande libertà espressiva, noto per il suo eclettismo, per le proprie stravaganze, non si piegò del tutto alle esigenze del committente. Come rileva il Venturi egli, pur adottando le composizioni dell’ambiente di corte, di sfarzo, non rinunciò “alla sua forza di costruttore, alla varietà delle immagini, delle linee, delle masse”. Dallo studio delle opere pittoriche, degli stucchi, delle stampe e dei disegni rimasti si è indotti a credere che l’artista volle esprimersi secondo una sorta di “antologia della Maniera”. Il Rosso sembra ripercorrere una figurazione riferibile a un repertorio culturale molto vasto, per la ricchezza di citazioni iconografiche e formali. Attinge ovviamente all’opera dei grandi maestri italiani (Michelangelo, Raffaello, Andrea del Sarto ma anche Pontormo e Parmigianino), senza rinunciare però a riproporre, con forza, figurazioni derivanti da proprie esperienze artistiche anche negative, come per esempio il probabile rifiuto, da parte del committente, della “Pala di Ognissanti”, per via di quei santi che parevano diavoli. Rosso Fiorentino avrebbe realizzato questa complessa “antologia” conferendogli caratteristiche che ne rendessero meno immediata e più difficile la lettura: allusioni simboliche e scelte estetiche esclusive, risolte mediante la fusione tra pittura, scultura, e architettura. L’artista si preoccupò, più che dei contenuti iconografici, di provocare un impatto visivo sullo spettatore, cercando anche di implicarlo sensualmente di fronte alle sue opere. Per questo tese a esaltare la figura umana, l’eros, trascurando il paesaggio e privilegiando l’architettura, considerando il nudo importante quanto l’architettura stessa.
Francesco I tese comunque a favorire più l’ornamento sfarzoso, il lusso, che l’autentica creazione d’arte. Egli volle probabilmente che gli artisti sviluppassero gli elementi celebrativi dell’arte attraverso l’interpretazione figurata e allusiva delle vicende degli eroi classici. A questo modo di concepire l’arte si adattò molto meglio il Primaticcio del Rosso. Il tracciato iconografico della Galleria Francesco I sembra condurre all’ipotesi che il ciclo sia stato eseguito nel rispetto di un programma, ricco di riferimenti all’antichità, con spunti per una riflessioni morale, politica e religiosa, dettato da un iconografo di corte, incaricato dal re. Il ciclo comprende soggetti storici e religiosi. Il soggetto storico si riconduce alla vicenda di personaggi famosi dell’antichità, eroine ed eroi del mondo orientale e romano (Cleopatra, Alessandro Magno, Scipione l’Africano). Il soggetto religioso riflette uno stretto collegamento con le idee estetiche, culturali e politiche diffuse nella corte francese. A Fontainebleau nasce e si sviluppa un’idea nuova di corte. Pitture e decori stabili prendono il posto degli arazzi, prediletti dai signori del tempo perché facili da avvolgere e trasferire. Cambia perciò il concetto di vita di corte, meno itinerante e più stabile. In Italia, i Gonzaga hanno già precorso il cambiamento: Mantova città ideale; il Palazzo Te, nuova corte modello.. A Roma, Le Stanze e Logge vaticane, o “Stanze e Logge di Raffaello”, da qualche anno completate, costituiscono un modello di decorazione da seguire. Nella Galleria Francesco I, si nota, tra gli altri, un preciso riferimento al Palazzo Te di Mantova. Si tratta della salamandra, scolpita e dorata sul pannello del rivestimento in noce della parete. L’animale rappresenta l’emblema di Francesco I e il suo significato è interpretato come”simbolo della costanza dell’uomo provato dalla sorte”. Al Palazzo Te di Mantova anche la scelta figurativa di Giulio Romano è influenzata dalle vicende personali del committente. Nella decorazione dei soffitti, la salamandra e sotto il cartiglio con il motto “quod huic deest me torquet” (“ciò che manca a costei è mio tormento”), stanno a simboleggiare l’amore di Federico II Gonzaga per l’amante, Isabella Boschetti. L’animale, noto per la sua leggendaria resistenza al fuoco, vuole essere l’allusione ai tormenti del fuoco d’amore ai quali Federico sarebbe stato soggetto. Pertanto il significato della salamandra, nella Galleria Francesco I, calzerebbe molto bene anche per la vicenda amorosa del re di Francia con la duchessa d’Etampes.
Molti furono gli artisti che lavorarono a Fontainebleau e ognuno di loro apportò comunque un contributo alla fioritura e all’evoluzione di un momento artistico irripetibile nella storia dell’arte in Francia. Rosso Fiorentino, fra tutti, rappresenta il personaggio di primo piano di quel periodo; egli lasciò in Francia, e soprattutto a Fontainebleau, un’impronta forte e indelebile che rimane ancora oggi. Influenzò e caratterizzò, con le sue invenzioni e con il suo stile, il lavoro di tutti gli altri artisti, per molti anni dopo la sua morte. Furono proprio gli italiani, presenti alla corte di Francia, a recepire per primi l’importanza della “ Maniera” del Rosso. Primaticcio, bolognese, già allievo e collaboratore di Giulio Romano, giunse a Fontainebleau nel 1532, e forse vi restò fino alla morte (1570).  Egli completò le decorazioni della sala da ballo, del padiglione, della Galleria, lasciate incompiute dal Rosso, per via della sua prematura morte (1540). Il suo capolavoro dovette essere però la celebre Galleria di Ulisse, opera grandiosa, oggi perduta, definita “la meraviglia del castello”, eseguita con l’aiuto di altri valenti artisti italiani, il fiorentino Luca Penni e l’emiliano Niccolò dell’Abate. Si contrappongono così a Fontainebleau due scuole: quella toscana, con la prevalenza dei fiorentini e quella lombarda con la prevalenza dei bolognesi. Tra gli emiliani sono da ricordare: Jacopo Barozzi da Vignola, arrivato in Francia tra il 1541 e il 1543, Ruggiero Ruggieri e  Francesco Scibec da Carpi che scolpì i pannelli in legno del rivestimento sulle pareti della Galleria. Sono poi passati da Fontainebleau: il pittore fiammingo Leonard Thiry, Sebastiano del Piombo, Francesco Salviati, Federico Zuccari e il veneto Paris Bordon. Nel 1540 (prima che il Rosso morisse) vi giunse anche il fiorentino Benvenuto Cellini, valente artista dal carattere rissoso e collerico. Si inimicò subito, infatti, la favorita del re, duchessa d’Etampes, forse per non tenerla nella dovuta considerazione e per far di testa sua opere non commissionate, mentre tardava indefinitamente a realizzare quelle dodici statue reggifiaccola d’argento che il Re desiderava collocare nei saloni del castello.
Tra il 1540 e il 1541 troviamo anche attivo come pittore, scultore, architetto reale di Fontainebleau, il veneziano Sebastiano Serlio, probabile autore della grotta del “Giardino dei Pini”, con bugnato e telamoni rustici. Seguono poi altri scultori come Girolamo della Robbia, anche ceramista, Domenico del Barbiere (già citato tra i bulinisti della “Scuola di Fontainebleau”), conosciuto come Domenico Fiorentino, anch’egli ceramista. Fontainebleau fu un cantiere fervidissimo, dove si confrontarono, si sovrapposero e si unificarono stili, elementi architettonici, conoscenze e culture diverse. In circa un ventennio si raggiunse una produzione artistica di eccezionale livello qualitativo. Essa costituisce il patrimonio della “grande Maniera” in Francia. L’arte di Fontainebleau resta perciò un capitolo a parte del Manierismo in Europa, intendendosi per Manierismo quel particolare periodo della cultura e dell’arte tardo-rinascimentale in cui la forma classica del Rinascimento si sviluppa in seducenti invenzioni e raffinati formalismi. Rosso Fiorentino rimane comunque la figura preminente, dominante nell’arte di Fontainebleau, il personaggio più rappresentativo di quella che fu poi definita, a ragione, la “ Ecole de Fontainebleau”.  L’esempio della decorazione della Galleria Francesco I arrivò presto anche oltremanica e indubbiamente l’opera del Rosso fu strettamente connessa con tutto l’impianto decorativo, oggi totalmente perduto, che si realizzò, dopo il 1538, al Palazzo di Nonsuch, in Inghilterra e che vide protagonista un altro artista italiano, Niccolò Bellini da Modena.






mercoledì 22 febbraio 2017

Leonardo da Vinci a Piombino

La città di Piombino,  in Provincia di Livorno, dovrebbe ricordare con orgoglio la sua ricca storia e   sentirsi onorata per gli illustri  personaggi che l'hanno frequentata durante i secoli. Tra questi troviamo nientemeno che il sommo Leonardo da Vinci. Qualche anno fa scrissi: 
"Mi piacerebbe vedere presto porre a Piombino una lapide in memoria dei soggiorni e dell'opera di Leonardo da Vinci. Pochissime città possono vantare tale onore. La vedrei bene su uno dei muri perimetrali della Piazza della Cittadella oppure nella attuale Via Mazzini. Tra i documenti che ricordano la presenza e l'attività di Leonardo a Piombino ci sono gli schizzi eseguiti al "Porticciolo" di flutti e di barche e ancora più importante l'enunciazione della teoria delle ombre verdi. Ci sono poi anche i disegni per lo studio di nuove fortificazioni a difesa della città.
Il 31 Ottobre 1994 scrissi il seguente articolo sul quotidiano "Il Tirreno":
Il primo Novembre 1504 una visita a Jacopo IV Appiani
Il Leonardo piombinese
In città come sovrintendente ai lavori portuali
"Il primo di Novembre 1504, nel giorno di Ognissanti, Leonardo da Vinci si trovava a Piombino presso Jacopo IV Appiani, Signore della città. La notizia è da considerarsi attendibile in quanto ci viene tramandata dal "Manoscritto II di Madrid". Al "Folio 25 recto" trovasi i seguenti appunti: "Addì ultimo di Novembre per Ognissanti, 1504, feci in Piombino, al Signore, tale dimostrazione." L'inesattezza nella data è un probabile lapsus di Leonardo (anche i grandi uomini possono sbagliare): ultimo starebbe per primo. La notizia sembra essere stata ignorata almeno fino al 1967, anno in cui vennero rinvenuti a Madrid scritti e disegni inediti di Leonardo. Questo materiale fu studiato e  divulgato nel 1968 in una raccolta di tre saggi di Carlo Pedretti, noto studioso della vita e delle opere di Leonardo, dal titolo "Leonardo da Vinci inedito" (edizioni Giunti, Firenze). Perciò nel 1504 Leonardo da Vinci si sarebbe assentato da Firenze per entrare al servizio del Signore di Piombino come sovrintendente ai lavori portuali e alle fortificazioni della città. Gli appunti sui primi fogli dello stesso "Manoscritto II" di Madrid potrebbero riferirsi alle note sulle "Fortificazioni" di Piombino e sulla "Muraglia".  Fu probabilmente sempre a Piombino che Leonardo scrisse la serie di note della pittura che Francesco Melzi, suo discepolo prediletto, più tardi avrebbe trascritto nel "Codice urbinate". Il Pedretti cita una delle note che però non fu trascritta, datata " 1504 a Piombino il dì d'Ognissanti" e ci dice che è "Un appunto a matita rossa che ricorda il fenomeno delle ombre verdi osservato sulla parete bianca di una casa del porto". Così scrisse Leonardo: " Io vidi gia lobmare (bi) verdi (ne corpi biachi) /fatti da le corde albero e antene sopra duna pa / riete di muro biancho andando il sole inochaso / e cquesto achadeva che cquella superfitie (che) / desso muro che nosi tignieva dellume del sole si / tignieva  del cholore del mare chelli era per obbietto". E' da credere che per Leonardo quello del 1504 non sarebbe stato il primo soggiorno nella città di Piombino. Egli vi avrebbe soggiornato anche tra il 1502 e il 1503 quando Cesare Borgia, detto il Valentino, figlio di Papa Alessandro VI, fu Signore di Piombino. A quel tempo Leonardo era al servizio di quel Signore e ricopriva l'incarico di "Ispettore e architetto generale delle fortezze e della città" ma anche addetto al progetto di  bonifica delle paludi". Gli studi di un sistema di fortificazione mai realizzato (ne abbiamo traccia in un documento del Codice Atlantico) sembrano risalire a quel periodo. Un gruppo di studenti locali (Bellucci, Fiorilli, Freschi e Verrucci) nel 1974 riconobbero quel documento come rappresentazione inequivocabile della pianta delle fortificazioni di Piombino. A questo punto sappiamo che Leonardo a Piombino sicuramente c'è stato. Sembra di vederla questa maestosa figura di cinquantenne scendere dalla rocca della Cittadella, aggirarsi per l'antica via Tra Palazzi, raggiungere Porta a Terra, percorrere l'interno del Rivellino, soffermarsi, scrutare, osservare, misurare, scrivere e disegnare. Leonardo, uno dei più grandi geni del Rinascimento, colui che si interessò di quasi tutti i campi dell'attività umana, immaginiamolo seduto davanti ai Canali di Marina, le antiche "Fonti delle serpi in amore", mentre scrive le sue note sulle ombre verdi, i suoi appunti per gli studi di navigazione, mentre esegue il disegno di frangenti con barca in prossimità di una costa rocciosa. Sono passati più di cinque secoli da quel dì di Ognissanti; la salma di Leonardo riposa in terra di Francia. Qui a Piombino il fenomeno delle ombre verdi potremmo vederlo ancora oggi, se ci fossero ancora case bianche sul porto.
Piombino 31 Ottobre 1994         
Goffredo Ademollo Valle

La mia proposta per posare una lapide in memoria di Leonardo da Vinci in Piombino, per quanto ne so io, a oggi 22/02/2017, non è mai stata presa in considerazione e lo dico con grande dispiacere e rammarico.



Piombino (Li) e le antiche terme del Falcone

LE ANTICHE TERME DEL FALCONE A PIOMBINO
Nel promontorio che sovrasta il mare del canale di Piombino si trova un’area che da qualche anno è stata resa Parco e costituisce un itinerario naturalistico unico ed esclusivo che oltre ai valori paesaggistici, botanici, faunistici, storico-militari potrebbe offrire anche occasioni di ricerche archeologiche . Nei pressi di questa zona, spostandosi nella valle verso Est, in prossimità del Rio Salivoli, sarebbero infatti  esistite "Le antiche terme del Falcone". Il 3 Ottobre del 1995 sulla pagina "Riviera etrusca" del quotidiano "La Nazione" fu pubblicato un mio articolo che titolava "Falcone, terme di Piombino-La scoperta dello storico Ademollo Valle".  Anche Piombino avrebbe avuto nel passato una stazione termale di acqua calda e precisamente in località Falcone. Questa notizia ce l'ha tramandata lo storico novecentesco Romualdo Cardarelli in un documento che si richiama ad una carta del Libro dei Consigli dell' 8 Luglio 1515 (secondo il calendario piombinese) nell'Archivio Storico comunale di Piombino. In questa carta si tratta di un progetto per la costruzione di una vasca grande in muratura per il contenimento delle acque calde del Falcone per curarvi "Infecta corpora", come facevano già gli antichi piombinesi, essendo queste acque ritenute medicinali e molte propizie alla salute. Sappiamo anche che questo progetto venne poi effettivamente realizzato e ce ne dà conferma lo storico ottocentesco Licurgo Cappelletti. In una pagina del testo "Storia della Città e Stato di Piombino" il Cappelletti asserisce che nell'anno 1894, in occasione di una sua visita "In loco", precisamente dove si trova il podere allora detto di San Giovanni in Salivoli, vide la polla d'acqua,  gli scalini per accedere nelle tinozze e dei piccoli crateri, nonché i resti delle mura che formavano i bagni. Sempre in quel tempo il Cappelletti scrive di avere avuto notizie dirette dell'esistenza di una porta principale di accesso allo stabilimento termale e di "Residui di camerini per bagnanti".
Il mio articolo su "La Nazione" non ebbe alcun seguito e l'allora amministrazione comunale lo ignorò totalmente.  Viene da chiedersi invece se quelle acque scorreranno ancora nel sottosuolo delle terre del Falcone e se disperdendosi in un gioco di rivoli sotterranei si andranno a versare copiose in fondo al mare. Pensiamo quale risorsa preziosissima costituirebbe questo patrimonio idrico e come potrebbe rendersi utile e proficuo per qualificare e incrementare il turismo della città di Piombino.
Goffredo Ademollo Valle        28/04/2016
Il mio post ha avuto un gran successo di gradimento e condivisioni su fb. Molti hanno commentato e li devo ringraziare poiche' mi hanno stimolato ad approfondire l'argomento. Un ringraziamento particolare a Diego Luci che pubblicando la foto della mappa del 1821 e la foto attuale della zona (oggi via Ruffilli) ha permesso di individuare con precisione il luogo dove si trovavano le antiche terme del Falcone:
"VERBA VOLANT SCRIPTA MANENT"





martedì 21 febbraio 2017

La Pala di Grancia perduta ritrovata e di nuovo perduta






"LA PALA DI GRANCIA "
"La Pala di Grancia o Grangia" è un tesoro del XV secolo che fece parte del patrimonio artistico grossetano; più volte sparita e poi ricomparsa. Dopo le giornalate che davano risalto ai buoni propositi dei Sindaci di amministrazioni passate, del sovrintendente ai beni culturali Antonio Paolucci, dei Vescovi, dei Presidenti di Provincia, della direttrice del Museo archeologico e di arte della Maremma  che facevano ben sperare in un possibile acquisto dell'opera e del suo definitivo ritorno a casa, mi chiedo oggi che fine avrà fatto? Si tratta di un pregevole dipinto, forse a tempera, del 1498, in origine su tavola centinata, poi trasportato su tela , che rappresenta "L'assunzione della Vergine in cielo" del pittore senese Benvenuto di Giovanni (Siena 1436-1518) del quale conosciamo altre importanti opere, presenti  sia in Maremma che nel territorio senese. Nel Settembre del 1999 l'allora sindaco di Grosseto Alessandro Antichi annunciò in più di un'occasione che "La  Pala di Grancia " sarebbe tornata a Grosseto (vedi foto allegate). Dalle notizie che ho potuto acquisire vorrei ricostruire approssimativamente l'itinerario dell'opera fino alla sua probabile scomparsa (non mi risulta che né l'amministrazione comunale di Grosseto né altre Istituzioni siano riuscite ad acquistarla): Il dipinto si trovava in origine nell'altare del convento della Tenuta di Grancia o La Grangia, situato alle porte della città di Grosseto in direzione Sud . La Tenuta era a quel tempo di proprietà dell' Ospedale della Scala di Siena. Sappiamo da C.A Nicolosi ( in Italia Artistica, 1910) che in quel luogo, fino al 1739,  esistette un Convento di frati francescani da qualche anno venduto (il riferimento è al 1910). Il convento era sorto intorno al 1482 (vedi NOTA 1) e sicuramente fu nel momento del suo massimo splendore (1498) che fu commissionata l'opera a Benvenuto di Giovanni, pittore molto attivo e apprezzato nell'intero territorio senese. "La Pala di Grancia" sparì misteriosamente, quasi certamente fu venduta, alla fine dell' Ottocento. Sempre il Nicolosi scrive (Italia Artistica,1910) che il Perkins riconobbe la tavola di Grancia nella collezione dell' antiquario fiorentino Elia Volpi, pubblicò una fotografia (vedi foto allegata) e  "Per quanto si può giudicare dalla fotografia e malgrado il deterioramento che essa ci rivela, dovuto all'abbandono in cui giacque prima che il suo proprietario se ne disfacesse...." poi aggiunge che il quadro debba attribuirsi a Girolamo di Benvenuto (1470-1524), figlio di Benvenuto di Giovanni, poiché presenta molte analogie con l'affresco di Torrita e la tavola di Montalcino, opere attribuite allo stesso autore.  Comunque poi il  Perkins sciolse ogni dubbio sulla paternità de "La Pala di Grancia" affermando che  il Volpi l'aveva sottoposta ad un profondo restauro durante il quale era comparsa la firma di Benvenuto e la data 1498. Si ipotizzò allora che forse il figlio Girolamo (ritenuto anche l'autore di una Pala dello stesso soggetto molto simile che si trova in Provincia di Grosseto nel convento in località La Selva di cui alleghiamo foto) avrebbe partecipato solo come aiuto. Per qualche anno non se ne ebbe più notizie . La ritroviamo a Roma, in vendita sul mercato antiquario, proveniente dal  Metropolitan Museum di New York; sarebbe stata lì dal lontano 1910 fino al 1975 ma anche oltre, come dono della Banca Morgan. Viene così alla luce che il Volpi aveva venduto il dipinto restaurato al famoso Banchiere Pierpont Morgan, dopo la visita del Perkins e contemporaneamente o quasi alle notizie scritte dal Nicolosi e successivamente lo stesso Morgan l'aveva donato al Museo . A New York il dipinto sarebbe stato trasportato dalla tavola su tela (intervento certamente discutibile e criticabile). La gallerista di origine aretina Ida Benucci è l'ultima proprietaria de "La Pala di Grancia" che conosciamo. In un' intervista rilasciata ai  giornalisti del quotidiano il Tirreno  asserisce di averla acquistata da un ramo della famiglia reale inglese la quale a sua volta l'aveva comprato negli Stati Uniti dopo che il Metropolitan Museum di New York l'aveva dismessa, nel 1978.  Il Prof. Aldo Mazzolai ( 1923-2009),  illustre studioso, affermò di avere visto ricomparire la Pala dell'Assunzione in un negozio antiquario in via del Babbuino a Roma nel 1984(in quell'occasione Mazzolai si dovette scontrare anche con Vittorio Sgarbi, forse per via di diverse opinioni sull'attribuzione); sicuramente si tratta della galleria di cui parla successivamente Ida Benucci in un' intervista al quotidiano L'Unità . Dopo qualche anno, nel 1991, l'opera sarebbe stata vista a Firenze, alla mostra dell'antiquariato di Palazzo Strozzi, durante la quale fu riconosciuta dalla Dr.ssa Roberta Ferrazza, studiosa ed esperta della collezione Volpi.  Agli inizi del 1999 il dipinto fu esposto per circa venti giorni nella galleria romana della Benucci (forse in via Giulia?)  e poi, nel mese di maggio, alla Biennale di Torino. E' proprio nel Settembre del 1999 che a Grosseto ci si adopera per riportare "La Pala di Grancia" in città. Il Vescovo Giacomo Babini parla di "Un atto di giustizia" il Sindaco Alessandro Antichi raccoglie l'appello del sovrintendente Antonio Paolucci; il presidente della Provincia Lio Scheggi appoggia l'iniziativa e così pure la direttrice del Museo archeologico e d'arte della Maremma Maria Grazia Celuzza. La Benucci chiese 140 milioni di Lire , cifra da considerarsi equa, anzi direi un prezzo di favore, e dichiara: " In questo momento l'opera non si trova nella mia galleria, ma è a casa mia. Il dipinto è in ottimo stato, i colori sono molto belli e quando l'ho visto me ne sono innamorata e l'ho acquistato per riportarlo in Italia. Per quanto mi riguarda non lo venderei mai ad uno straniero e credo che sarebbe il massimo se potesse tornare nella sua terra di origine".  L'antiquario fiorentino, di origine grossetana, Gianfranco Luzzetti, a quel tempo, mise a disposizione, come contributo, la somma di 10 milioni per l' immediato acquisto dell'opera  (Luzzetti è anche protagonista di un'annosa vicenda, un'odissea, tuttora  nel 2016 ancora in corso  che lo vede nelle vesti di donatore e benefattore per avere offerto alla città di Grosseto la sua preziosa e ricca collezione di dipinti antichi, chiedendo in cambio  solo una sede adatta per ospitarli ). Tutto questo teatrino di consensi e chiacchere sembra  non avere portato a nessuna conlusione concreta. Nonostante le  buone intenzioni di Ida Benucci per ricondurlo a Grosseto il quadro rimase di  sua proprietà . Probabilmente non ci fu la reale volontà di concludere quell'affare; non c'era e non c'è tuttora abbastanza interesse e sensibilità per iniziare azioni di recupero del patrimonio storico-artistico scomparso, attraverso i secoli, da Grosseto e dalla Maremma anche nel rispetto della memoria storica del territorio. Si tratta di un patrimonio disperso consistente.  Vorrei citare in proposito un articolo denuncia del Prof. Aldo Mazzolai, oggi defunto, pubblicato in data 8 Aprile 2006 dal quotidiano Il Tirreno:
GROSSETO.Depredati di centinaia di opere d'arte
di Claudio Bottinelli
IL TIRRENO 08-APR 2006, GROSSETO
II professar Mazzolai denuncia la scomparsa di moltissimi quadri e reperti antichi
GROSSETO. La città di Grosseto non è mai stata ricchissima di opere d'arte, ma è anche vero che è stata depredata nel tempo delle sue opere d'arte più belle e, nel corso dei secoli anche delle sue campane, visto che ne mancherebbe almeno sedici all'appello». E' battagliero, e vorrebbe tanto riaverle a Grosseto quelle opere d'arte, il professor Aldo Mazzolai, 82 anni, già professore al liceo scientifico e al classico, insegnante di storia dell'arte e di lettere, archeologo e direttore per decenni del museo archeologico di Grosseto che ha contribuito a ricostruire nella sua veste attuale, l'uomo che quando "Roselle era silenziosa", quando cioè era ancora quasi dimenticata, come scrisse il professor Massimo Pallottino, spronò alla sua riscoperta.
«Sono almeno duecento - nota Mazzolai - le opere d'arte elencate da Alfonso Ademollo fra quelle esistenti in città nel 1894, delle quali non si sa più nulla. Semplicemente sono sparite. Per alcune si conosce come furono alienate o portate via, e non sono più qui. Senza parlare dei reperti archeologici, etruschi e romani, che sono spariti a migliaia».
Mazzolai si infervora e rincara la dose: «Ma lo sa - ci dice -che a Grosseto di fatto sono spariti due musei, quello archeologico e quello d'arte che erano ospitati nell'attuale palazzo municipale? Addirittura sono sparite intere collezioni egizie che erano al museo, i cui pezzi sono finiti chissà dove, forse nelle sale di qualche famiglia grossetana?»
Ricorda l'immediato dopoguerra, il professor Mazzolai, quando assieme a Luciano Bianciardi, riordinò quel che restava di museo e biblioteca: «Trovammo di tutto, perfino indumenti intimi femminili- ricorda - però mancavano tanti "pezzi" finiti chissà dove».
Una storia in parte ricostruibile quella dei tesori che Grosseto non ha più.
«Nel 1927, per esempio, - cita il professor Mazzolai - l'allora podestà di Grosseto fece una trattativa con un antiquario di Genova dando quattro pitture a fondo d'oro del Quattrocento in cambio di un sarcofago che oggi è al museo e che era stato ritrovato nei pressi di fetia. Un cambio scellerato, visto che il sarcofago, oltretutto, era già nel museo! E l'anno dopo sempre il Comune vendette a un privato oggetti archeologici e altro, e per poco non finivano in quella vendita anche i seicenteschi studi per sculture di B.Mazzuoli che oggi sono al museo d'arte sacra».
Emblematico il caso della "Assunzione" di Benvenuto Di Giovanni che era nel Monastero di Grancia e sparì sul finire dell'Ottocento per ricomparire nelle sale del Metropolitan Museum di New York. «Attorno a questo dipinti di grande pregio, ricorda Aldo Mazzolai, ci fu uno scontro fra me e il critico d'arte Vittorio Sgarbi Era il 1984 e quella "Assunzione" ricomparve nel negozio di un antiquario a Roma, in via del Babbuino. Mi fu dato torto, e oggi non so più che fine ha fatto».
L'Addimandi scrive che nel 1865, il canonico Chelli donò al museo 158 quadri di sua proprietà. Di molte - dice Mazzolai - si è persa la traccia.
Cosa potrebbe essere fatto? «Difficile a dirsi - riflette Mazzolai - ma una cosa è certa: bisognerebbe innanzi tutto ricostruire, dai documenti, l'elenco di ciò che Grosseto ha avuto, che era suo e che non c'è più, e seguirne quindi le tracce, se è possibile».
L'arrabbiatura di Aldo Mazzolai, quando parla di ciò che è "sparito" non si ferma ai dipinti e alle sculture. Anzi, pensando agli oggetti archeologici, s'infiamma: «Il primitivo museo, di fatto, - dice - fu venduto, e perfino il Frontone di Talamone, che sarebbe spettato a Grosseto, è finito a Orbetello, insieme a tanti altri oggetti che con la compiacenza delle Sovrintendenze sono finite sulle rive della laguna o in altri musei della Toscana». Poi ci sono i furti, tipo quello famoso della collana che i ladri portarono via nel 1957, quando il museo archeologico era ancora in via
Mazzini: un ladro si fece chiudere dentro, poi aprì ai compagni e fecero man bassa».
E ci sono stati, e ci sono ancora purtroppo, i clandestini che scavano le tombe. E' un esperto in questo settore, il professor Mazolaì, visto la sua lunga attività come direttore del museo archeologico, in anni nei quali gli scavi clandestini erano ben più fiorenti di oggi
«Si era arrivati - ricorda Mazzolai - a vendere una tomba prima ancora che fosse scavata. A scatola chiusa. Si cercava l'acquirente che pagava una certa cifra e diveniva proprietario, e una volta fatto lo scavo clandestino, di quasi tutto quello che c'era».
Non mancano aneddoti anche curiosi, su questo fronte: «La sfinge che oggi è al museo archeologico - ricorda Mazzolai - riuscii a recuperarla perché, mentre viaggiavo in treno sulla linea per Siena, sentii due persone che confabulavano e parlavano di una statua che stava per essere venduta e che si trovava nella bottega di un barbiere. Scesi in fretta e furia dal treno alla prima fermata, corsi da quel barbiere e mi feci consegnare la sfinge, riuscendo a salvarla».
Storie di malefatte, o dì vendite ufficiali ma con poco senso, che hanno di fatto depredato la città di Grosseto.
Storie di cui si conosce sono qualche traccia. «Sarà difficile, anche volendolo, poter ritrovare tutto quel che è stato portato via. Ma almeno - riflette il professor Mazzolai, chiaramente amareggiato - ci potremmo tentare. Forse qualcosa almeno potremmo recuperare."
Ritornando a "La Pala di Grancia" si hanno di nuovo sue notizie da un articolo di Massimiliano Tonelli pubblicato sabato 26 febbraio 2000:
"E’ esposta in questi giorni, in una delle sale del Complesso Museale di Santa Maria della Scala, una pala d’altare di Benvenuto di Giovanni, datata 1498 e tornata a Siena dopo più di quattro secoli. Grazie all’ VIII Mostra Mercato dell’ Antiquariato di Siena, la pala, di spettacolare bellezza e livello di conservazione, ha avuto l’opportunità di tornare nella sua patria. Grazie alla famiglia Benucci, antiquari romani, la pala resterà per qualche giorno ancora a Siena indipendentemente dalla chiusura della Biennale dell’Antiquariato. Cerchiamo di capire ora la storia dell’opera e il ruolo che ebbe, mezzo millennio fa, lo Spedale di Santa Maria della Scala. Per comprendere l’enorme potenza che l’ospedale più grande del mondo medievale aveva ancora nel ‘400, andiamo a rileggere la storia della pala. Il dipinto di Benvenuto di Giovanni venne commissionato non per la “sede centrale” del Santa Maria bensì per una delle sue Grancie (che erano della fattorie diffuse nel territorio ed utilizzate come serbatoio di provviste e come motore economico e produttivo). La Grancia di Grosseto era una delle più importanti: aveva molto terreno, una infermieria con ventiquattro letti ed una spezieria. Un vero miniospedale distaccato in Maremma. Fu per questa Grancia che venne commissionata l’opera. La vicenda della grande pala fu poi quantomai intricata con percorsi che passarono da Firenze. Napoli, New York e Londra. Ma l’evento fa riflettere sulla potenza di un ospedale che era diventato azienda e che si poteva permettere, grazie a contributi e lasciti, di commissionare opere d’arte monumentali anche per una delle sue filiali."  Voglio far notare che intanto l'opera non arrivò a Grosseto, come ci si sarebbe auspicato, ma a Siena e infatti siccome è credibile che Grosseto e La Grancia siano ancora oggi ritenuti dai senesi  territori dominati,  si scrisse che l'opera dopo più di quattro secoli è tornata a Siena. Di fatto i senesi sembrano essere fermi tra il Trecento e il Quattrocento, quando iniziò la trasformazione dell’originario complesso monastico nella fattoria fortificata Grangia che, in epoca rinascimentale, passò poi alle dipendenze dello Spedale di Santa Maria della Scala di Siena. Ciò spiega anche perché il dipinto venne esposto nel  Complesso Museale di Santa Maria della Scala. Questo senso di appartenenza del dipinto a Siena, nonostante si sapesse bene che La Grancia si trova in Provincia di Grosseto, dimostra che i senesi credono tuttoggi nel perdurare del dominio esercitato da secoli nei confronti della sottomessa Maremma grossetana. Del resto ancora oggi la Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici dell'intera  Provincia di Grosseto ha sede a Siena. Inoltre la campana che si trova sulla Torre del Mangia, in Piazza del Campo, a Siena, è frutto di un saccheggio al Palazzo comunale di Grosseto . " ...Finché nel 1336 Puccio di Gualtiero da Magliano, generalissimo al servizio sei senesi , si impadronisce definitivamente della città, alla quale infligge l'estremo oltraggio  dello spianamento delle mura e da cui toglie la maggior campana per innalzarla, emblema di vittoria, sulla Torre del Mangia...". La comunità di Grosseto e le amministrazioni che si sono succedute nel corso dei secoli, o per viltà o per ignoranza, non hanno mai rivendicato la loro campana, neanche simbolicamente, assoggettandosi passivamente alla storica sudditanza da Siena.  Ritornando a "La Pala di Grancia" nel 2006 abbiamo notizia che è ancora di proprietà di Ida Benucci la quale aveva ancora la volontà di venderla; infatti la stessa dichiara che "La Pala di Grancia" sarebbe andata all'asta Il 16 marzo , ed il ricavato sarebbe andato a finanziare un progetto per i bambini del Congo e del Kenia: il Centre hospitalier Mère et enfànt di Kinshasa - il Centro di Monkole - ed il Neema Hospital di Nairobi. Questo progetto sarebbe piaciuto molto a Walter Veltroni, allora  Sindaco di Roma e a Giovanna Melandri (il che è tutto dire). A distanza di circa dieci anni (2016) da queste ultime notizie, di quell' asta non ne conosco l'esito né sono sicuro che ci sia stata. Così non so se effettivamente  il dipinto sia stato venduto e chi potrebbe essere stato l'acquirente. Il fatto sta che ancora una volta, grazie alla cecità e alla insensibilità di tutti i grossetani  verso l'Arte e soprattutto nei confronti della propria identità e delle proprie radici, "La Pala di Grancia" ha ripreso il volo per chissà dove ed io ne ho perso definitivamente le tracce; lo scrivo con grande rammarico e dispiacere.
                                                                                         
NOTA 1) La breve distanza da quello ove viene edificato il convento, rispetto al luogo in cui è l'odierna Fattoria della Grancia, è rappresentata nel disegno esistente (Archivio di Stato di Siena. Ospedale S.Maria della Scala n.1433 . "Grancia di Grossero". Fine sec.XVII- primi XVIII) che raffigura ambedue i complessi: il convento delle Capanne è indicato dalla scritta «S.Maria». L'annalista settecentesco dell'Ordine Francescano, Luca Wadingo, riferisce che nel 1482 il comune di Grosseto costruì alle Capanne di S. Maria, di là dall'Ombrone, un piccolo convento per i frati osservanti del convento della Nave di Montorsaio (Annales Minorum, Roma 1731, vol. XXII, p.103). Il comune di Grosseto prese tale risoluzione dopo che i frati, nel 1479, ebbero il rifiuto alla loro richiesta di trasferirsi in città, nella quale spesso venivano per il loro ministero e per la ricerca delle elemosine, ed in particolare nel monastero dell'Annunziata, abbandonato dalle monache, e la cui proprietà era rivendicata dal  Capitolo della Cattedrale di Grosseto. Una piccola chiesa, dedicata a S.Maria, era presso il convento, e questo «fu sempre sotto la protezione del comune grossetano. Dai libri di memorie e deliberazioni della Comunità di Grosseto rilevasi che i frati osservanti di S.Maria, detti anche di S. Bernardino, ricevevano offerte e sussidi dal pubblico Consiglio grossetano, e che nel 1524 chiedevano denaro per fabbricare nel loro convento. A questi frati era pure affidata la cura del monastero delle clarisse in Grosseto, ma nell'anno 1554 il Consiglio li dispensò dal prestare qualsiasi ufficio spirituale e temporale, riservandosi perfino l'elezione del confessore delle monache. Consta ancora che tra il secolo XV e XVI il convento si era accresciuto di religiosi che vi avevano ancora lo studio per i novizi, ed ospitavano artisti che lasciarono a quei padri preziosi lavori, oggi sventuratamente perduti. Ogni anno i frati intervenivano in Grosseto alla solenne processione del Corpus Domini e si univano coi padri conventuali di S. Francesco. Il Gherardini nella sua visita per la Maremma nel 1676 parla del convento degli osservanti di Santa Maria di là dall'Ombrone della diocesi di Sovana e dice che al suo tempo vi abitavano tre sacerdoti e due laici che amministravano la parrocchia. Circa gli anni 1740 il convento di S. Maria delle Capanne veniva dai monaci abbandonato, e vi fu sostituito un sacerdote secolare col titolo di pievano... Fino da quando la Comunità di Grosseto era padrona del convento degli osservanti di Santa Maria delle Capanne aveva fatto costruire sull'Ombrone un molino detto appunto di Santa Maria. Infatti da una pergamena del 2 dicembre 1519 rilevasi che Giovanni del quondam Vanni di Signorino dei Pecci e Bartolommeo del quondam Ambrogio dei Brizzi, cittadini senesi, ottengono per decreto della Comunità di Grosseto l'uso ed usufrutto di un suo molino posto in corte di Grosseto sopra il fiume Ombrone in luogo detto S. Maria con alcuni patti e condizioni ivi descritti, e detto usufrutto per anni cento giacché si erano esibiti di risarcirlo per renderlo atto a macinare....Nella chiesa esisteva fino dall'antico una tavola pregevolissima rappresentante l'Assunzione di Maria opera di Benvenuto di Giovanni da Siena del 1498...» (A.CAPPELLI '10, pp.58-59). L'abbandono del convento non impedì alla chiesa di essere officiata ancora a lungo: questa è documentata essere in buono stato ed officiata nel 1769, e poi ancora esistente e chiamata “Pieve Vecchia” nel 1774. E poi, e soprattutto, la documentazione ha consentito di apprendere che nel 1788 la chiesa del Convento aveva ancora gran parte dei suoi arredi, sebbene gli agenti della Tenuta della Grancia molti ne avessero trasferiti altrove, ed in particolare nella nuova cappella della fattoria. Di quegli arredi esiste l’inventario, ed in esso è registrato, posto sull’altare di destra, «Un quadro esprimente l’Assunzione di Maria Vergine con altri Santi, e sue cornici dorate». Si tratta evidentemente del dipinto di Benvenuto di Giovanni, che dunque l’inventario attesta proprietà della Chiesa, ancora esistente ed officiata, del Convento abbandonato, dipinto fino ad allora sfuggito agli arbitrari trasferimenti di arredi operati dagli agenti della Tenuta della Grancia. Nello stesso inventario del 1788 è registrato anche «Un Crocifisso grande con due Angioli appresso posti sopra i piedistalli». Questo Crocifisso è ancora esistente nella cappella di Grancia, a testimoniare come in essa siano stati trasferiti beni indubbiamente appartenenti in realtà alla Chiesa del Convento. Documenti presenti nell'Archivio Vescovile di Pitigliano. Inventario dei Benefizi e Legati Pii, Volume VII, Grancia di Grosseto. C.421: "Inventario e notizie relative alla Chiesa , e Fabbrica di S.Maria della Grancia di Grosseto".
                                                                                                              Goffredo Ademollo Valle